FLORA PEYVANDI: UNA VITA PER LE MALATTIE DEL SANGUE

Iraniana di nascita, italiana d’adozione. Flora Peyvandi vive in Italia da 30 anni, da quando nel lontano 1985 si è iscritta alla facoltà di Medicina all’Università degli Studi di Milano. Dopo la specializzazione in Ematologia e il dottorato di ricerca per approfondire le conoscenze nel campo delle malattie del sangue, ha lavorato al Royal Free Hospital dell’University College di Londra e poi alla Harward University di Boston. Da lì però ha preferito rientrare in Italia, dove attualmente è professore associato di Medicina Interna all’Università di Milano e dirige il Centro Emofilia e Trombosi “Angelo Bianchi Bonomi” del Policlinico di Milano che assiste i pazienti affetti da emofilia e malattie rare della coagulazione. Le sue origini e le esperienze internazionali, ma soprattutto la grande passione per questa professione, alla quale ha dedicato la sua vita, le hanno permesso di promuovere iniziative socio-sanitarie in Paesi del Medio Oriente, come l’Iran e l’Afghanistan dove è riuscita a creare un Centro di cura per queste malattie.

Per le sue ricerche è stata insignita di diversi premi internazionali. A Milano ha ricevuto il Premio Grande Ippocrate 2014, come Ricercatore scientifico dell’anno, promosso dall’Unione Nazionale Medico Scientifica d’Informazione (UNAMSI) e da Novartis. La motivazione del premio riguarda la capacità di divulgare al grande pubblico i risultati della sua attività scientifica. Nell’occasione, le abbiamo rivolto qualche domanda.

Come è nato il suo interesse per le malattie del sangue?

«Fin da quando mi sono laureata e poi specializzata con il professor Mannucci, che dirigeva il Centro Emofilia e Trombosi del Policlinico di Milano, discutendo una tesi proprio sulle malattie rare del sangue, ho coltivato l’interesse di occuparmi di queste patologie. Forse perché il sangue è l’elemento vitale, la linfa dell’organismo. Non riguarda solo una patologia, ma l’intero sistema vivente. Grazie alle recenti ricerche di biologia molecolare e ai mezzi di innovazione tecnologica, ho potuto fare contemporaneamente ricerca di base e sperimentazione clinica, mettendo subito a frutto le scoperte. La più grande soddisfazione di un ricercatore penso sia quella di verificare che una sua scoperta funziona e serve a curare una malattia».

Ed è quello che lei ha fatto. Dalla scoperta delle mutazioni geniche, che causano alcune malattie del sangue, alla cura dei malati. Ci sono episodi che ricorda con particolare emozione e le hanno dato la carica per proseguire nella sua attività?

«Una delle esperienze che mi ha toccata maggiormente è stato l’impatto con le popolazioni dell’Afghanistan. All’epoca lavoravo a Londra e sono stata contattata dalla Fondazione Paracelso per fornire un coagulometro, che valutasse i parametri della coagulazione del sangue, all’ospedale di Kabul. Lì infatti arrivavano ogni giorno decine di bambini che rischiavano di morire a causa di emorragie provocate dalle malattie congenite della coagulazione, molto diffuse in questa Regione a causa dei matrimoni tra consanguinei. Sono andata personalmente a Kabul per valutare la situazione: abbiamo installato questa apparecchiatura e insegnato ai medici locali come doveva essere usata. In quei giorni sono rimasta sconvolta nel vedere le mamme di questi bambini che si facevano prelevare litri di sangue per poter fare le trasfusioni ai figli e salvare loro la vita. Per questo ci siamo impegnati per avviare un Centro di diagnosi e di cura di questi malati proprio a Kabul e ora ci stiamo organizzando anche in alcune nazioni dell’Africa come lo Zambia, grazie al prezioso contributo della Fondazione Paracelso>.

Come procede oggi la sua ricerca nel Centro Emofilia di Milano? A quali progetti sta lavorando?

<Per quanto riguarda le attività più recenti realizzate a Milano, presso il Centro Emofilia e Trombosi, abbiamo studiato le cause genetiche delle malattie congenite della coagulazione e organizzato un network internazionale sulle malattie rare della coagulazione (Rare Bleeding Disorders Database, www.rbdd.org) che, grazie ai dati raccolti su 550 pazienti, ha dato un notevole contributo alle conoscenze di queste patologie. Inoltre abbiamo istituito ambulatori per la consulenza genetica e la diagnosi prenatale. Grazie a esami come l’amniocentesi o la villocentesi, si riesce a diagnosticare l’emofilia tra la 10a e 16a settimana di gestazione. Queste procedure sono però associate a un minimo rischio di aborto (0,5-1,5%): per il futuro, grazie alle recenti ricerche sul DNA fetale libero, basterà un semplice prelievo di sangue materno già all’ottava settimana di gestazione per la diagnosi di queste malattie».

Cosa fare quando viene individuata un’anomalia genetica di questo tipo in epoca pre-natale? Esistono oggi farmaci efficaci per curare queste malattie?

«Una volta individuata precocemente l’anomalia genetica, la mamma può scegliere se interrompere o portare avanti la gravidanza. Se decide di proseguire, si mettono in atto particolari profilassi per prevenire complicanze durante il parto e si consiglia di rivolgersi a un centro specializzato. Grazie ai progressi della farmacologia, esistono oggi cure efficaci che consentono a questi bambini di avere una vita quasi normale. Per l’emofilia, ad esempio, si somministrano per endovena dei concentrati che contengono quei fattori della coagulazione (F VIII e IX), mancanti nei casi emofilia A e B. L’infusione può avvenire nei casi di episodi emorragici acuti (trattamento on-demand), oppure come trattamento profilattico da effettuare periodicamente con due o tre iniezioni a settimana. Negli ultimi anni sono stati messi a punto nuovi farmaci ricombinanti, frutto dell’ingegneria genetica, che consentono anche una sola somministrazione ogni due settimane. Purtroppo però queste nuove cure non sono ancora disponibili in Europa, ma solo negli Stati Uniti, Canada e Giappone, perché l’autorità europea dei farmaci (EMA) richiede una sperimentazione specifica sui bambini, che comporterà almeno due o tre anni di ritardo nel loro utilizzo clinico anche per gli adulti. Per questo abbiamo richiesto di recente all’EMA, attraverso un articolo pubblicato su Nature Medicine, di rendere disponibli al più presto questi farmaci, almeno per gli adulti e proseguire contemporaneamente la sperimentazione sui bambini».

di Paola Trombetta

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