Giornata Mondiale: le cellule staminali che curano il diabete tipo 1

La Giornata Mondiale del Diabete (14 novembre) ci offre l’occasione per focalizzare l’attenzione su un nuovo ambito di ricerca che riguarda il diabete di tipo 1: le “terapie cellulari”, di cui si è parlato in occasione del recente Congresso SIMI (Società Italiana Medicina Interna) a Roma. «Quest’anno abbiamo voluto introdurre, tra i temi del Congresso annuale, un argomento di ricerca di frontiera, ovvero quello delle terapie cellulari nelle patologie metaboliche», ha precisato il professor Giorgio Sesti, presidente della SIMI. «Si tratta di studi sperimentali che non hanno ancora un’applicazione clinica, ma sono destinati a diventare una terapia del prossimo futuro. Il campo delle terapie cellulari per il trattamento del diabete di tipo 1 è in rapida evoluzione. La speranza è di poter disporre a breve di fonti di cellule produttrici di insulina, alternative a quelle dei donatori, utilizzate da tempo per i trapianti».

«Le migliori candidate per la produzione di cellule beta sono al momento le cellule staminali umane pluripotenti, che hanno un potenziale illimitato di divisione e differenziazione», ha puntualizzato il professor Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute dell’Ospedale San Raffaele di Milano e uno dei maggiori esperti mondiali sull’argomento. «Diversi laboratori hanno sviluppato protocolli per la differenziazione delle cellule pluripotenti in cellule beta e un grande sforzo negli ultimi anni si è concentrato sullo sviluppo di prodotti cellulari con un buon profilo di sicurezza che ne consente l’applicazione clinica». Attualmente sono registrati 6 studi clinici che utilizzano cellule staminali pluripotenti umane per la terapia del diabete di tipo 1 e i primi pazienti nei quali sono state impiantate hanno presentato un evidente beneficio clinico. «In particolare – prosegue il professor Piemonti – proprio quest’anno è stata ottenuta per la prima volta l’insulino-indipendenza nell’uomo. In ottobre è stata inoltrata la richiesta alle agenzie regolatorie dei Paesi europei (Italia compresa) per le prime sperimentazioni nell’uomo. Inoltre, sono in fase di valutazione diverse strategie per ridurre o evitare il rigetto immunitario, tra le quali la generazione di cellule staminali pluripotenti universalmente compatibili, perché rese “invisibili” al sistema immunitario (con geni che codificano per molecole immunosoppressive)».

Oltre alle cellule beta da donatore, oggi si dispone di diverse fonti alternative, come le cellule produttrici di insulina del maiale. «Queste cellule sono molto interessanti perché l’insulina differisce da quella umana per un solo aminoacido», commenta il professor Piemonti. «Del resto, in passato, veniva usata in terapia, prima che arrivasse quella umana». Naturalmente le reazioni di rigetto contro questi tessuti di origine animale sono un problema non facile da tenere sotto controllo: per questo sono allo studio attività di modificazione genetica degli animali per poter ottenere cellule “invisibili” al nostro sistema immunitario. Le cellule staminali pluripotenti rimangono al momento le migliori per la terapia del diabete. Due le fonti principali: quelle che derivano dall’embrione; le cellule “riprogrammate”, frutto di una grande scoperta che ha valso a Yamanaka il premio Nobel».

La caratteristica specifica delle cellule embrionali, cioè quella di poter dar vita a tutti i tessuti, è una funzione che può essere acquisita da qualsiasi cellula del nostro corpo, a patto che venga “attivata”. «In questo modo – spiega il professor Piemonti – una cellula della pelle può acquisire le stesse caratteristiche di una cellula pluripotente di origine embrionale: da queste è possibile ottenere cellule produttrici di insulina, come è stato fatto in alcuni trial clinici. La prossima frontiera sarà di far “ringiovanire” parte di queste cellule “in vivo” (cioè direttamente nell’organismo), per ricreare all’interno del corpo l’organo insufficiente, ad esempio il pancreas (questo reprogramming in vivo è stato fatto nell’animale, ma non ancora nell’uomo). Bisogna essere prudenti naturalmente perché c’è sempre il rischio che, giocando con l’identità delle cellule, possa svilupparsi un tumore. Questo però è un problema del reprogramming in vivo, ma non del trapianto di staminali pluripotenti perché, prima del trapianto, ne possiamo controllare la stabilità genetica».

Paola Trombetta

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