La tecnologia più innovativa al servizio dei malati di Alzheimer

«I primi sintomi sono stati dislessia e disorientamento spazio-temporale; poi man mano difficoltà a riconoscere le persone, a ricordare episodi recenti. E dieci anni fa la diagnosi di demenza. Una doccia fredda per me che avevo solo 49 anni e per i miei familiari, marito e due figli, che mi hanno sempre aiutata e supportata in questi anni. Per fortuna l’evoluzione della malattia è molto lenta e per ora le mie facoltà cognitive non sono più di tanto alterate. Faccio sempre esercizi mentali, fisioterapia, logopedia per tenere in allenamento le funzioni cognitive. E ho deciso in questi anni di occuparmi delle persone che hanno la mia stessa malattia e sono però meno fortunate perché i sintomi si sono aggravati più velocemente. Ho fondato l’Associazione DAI (Dementia Alliance International – www.infodai.org) allo scopo di diffondere la conoscenza della demenza, di sollecitare la diagnosi fin dai primi sintomi e soprattutto di dare ai malati la possibilità di ricevere assistenza e poter fare esercizi di riabilitazione cognitiva e linguistica per conservare una dignitosa qualità di vita. Il malato di Alzheimer, infatti, tende a lasciarsi andare e isolarsi: purtroppo lo stigma della malattia è ancora molto diffuso. Con la nostra associazione ci proponiamo di combattere i pregiudizi che circondano questi malati e di rendere la loro vita il più normale possibile».

Con queste parole Kate Swaffer, australiana di Adelaide, ha voluto raccontare la sua malattia e il suo attuale impegno nell’associazione di pazienti. E lo ha fatto partecipando al Congresso milanese “Dalla famiglia alla comunità: l’innovazione al servizio della persona con demenza”, promosso dalla Federazione Alzheimer Italia, che si è tenuto a Palazzo Marino, in occasione della 25a Giornata Mondiale dedicata all’Alzheimer che ricorre il prossimo 21 settembre, dove è stata anche presentata una mostra fotografica itinerante con più di 100 foto raccolte in un libro dall’autrice Cathy Greenblat. Un importante appuntamento di approfondimento e confronto tra specialisti e operatori nel settore, dove si è parlato di riabilitazione e terapia occupazionale per ridare dignità ai malati e rassicurare le famiglie. In particolare è stato affrontato il tema dell’introduzione della tecnologia a supporto delle persone con demenza.

«Si parla sempre più spesso di “Tecnologia assistiva” che prevede anche l’uso di dispositivi che consentono di migliorare le capacità funzionali di individui con disabilità di ogni genere», ha spiegato Silvia Vitali, geriatra e direttore medico all’Istituto Camillo Golgi di Abbiategrasso. «Tra questi vorrei citare il Progetto TED (Tecnology Ethical in Dementia) che prevede l’utilizzo di apparecchiature per il controllo della sicurezza del paziente, in grado di segnalare ad esempio situazioni di pericolo, rischio di possibili cadute, di abbandono del proprio letto e addirittura di allontanamento dalla propria casa. Si tratta di dispositivi elettronici che possono, in taluni casi, supportare la memoria e migliorare addirittura le potenzialità cognitive della persona, rendendola più consapevole dell’atto che sta compiendo, migliorandone l’autonomia. Rappresentano anche un elemento rassicurante per i familiari, non sempre presenti in casa dove vive il malato che, nelle fasi avanzate di malattia, richiede un’assistenza continua. Tenendo conto che il 68% delle persone con demenza necessita di assistenza 24 ore su 24, questi dispositivi potrebbero rappresentare delle soluzioni di sorveglianza e non solo di assistenza».

Possiamo anche definirli come una sorta di “assistenti virtuali” in quanto si avvalgono dell’intelligenza artificiale per supportare le persone con disabilità.

Parte il progetto “Chat Yourself”

Di queste nuove tecnologie, applicate ai malati di Alzheimer, si è parlato i giorni scorsi a Roma, al Ministero della Salute, in occasione della conferenza stampa “Alzheimer, non perdiamolo di vista”, organizzata da Italia Longeva, la Rete nazionale di ricerca sull’invecchiamento e la longevità attiva del Ministero della Salute, sostenitore del Progetto “Chat Yourself”, il primo chatbot per i malati prodromici di Alzheimer (@chatyourselfitalia). La sua diffusione è sostenuta da una campagna social che vede in prima linea esperti e familiari e anche testimonial del mondo della cultura e dello spettacolo. Una proposta concreta di utilizzo sociale dell’innovazione tecnologica arriva da Chat Yourself, la “memoria di riserva” a portata di smartphone in qualunque momento della giornata: è in grado di memorizzare le informazioni relative alla vita di una persona, restituendole su richiesta all’utente, che ha anche la possibilità di impostare notifiche personalizzate. Il chatbot, nato da un’idea di Y&R con il supporto tecnico di Nextopera e di Facebook e perfezionato da un team di neurologi, geriatri e psicologi per rispondere alle esigenze dei pazienti, è accessibile a tutti gratuitamente sulla pagina Facebook di Chat Yourself (@chatyourselfitalia).

«Chat Yourself è nato con questo obiettivo: contenere il danno provocato dalla malattia, affiancando all’impegno dei propri cari un aiuto concreto a ricordare», ha precisato il professor Roberto Bernabei, Presidente di Italia Longeva. «In attesa di cure efficaci contro l’Alzheimer, una strada percorribile nelle prime fasi dopo la diagnosi è proprio quella di sfruttare le risorse della tecnologia. Per l’Italia, Paese più vecchio al mondo insieme al Giappone, le demenze rappresentano un problema sociale ogni giorno più grande. Ciò vale in particolar modo per l’Alzheimer, la forma di demenza più prepotente e violenta, sia sotto il profilo epidemiologico (su più di 1 milione di dementi, l’Alzheimer interessa 600 mila persone), sia per l’impatto sulla qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari. Questa patologia oggi interessa quasi il 5% degli over-65, ma secondo le proiezioni elaborate dall’ISTAT per Italia Longeva, nel 2030 la percentuale si triplicherà e saranno colpiti dalla malattia oltre 2 milioni di pazienti, in prevalenza donne. L’Alzheimer comporta un lento e progressivo decadimento delle funzioni cognitive, dovuto all’azione di due proteine, la Beta-amiloide e la proteina Tau, che si accumulano nel cervello causandone la morte cellulare».

«Evidenze scientifiche ci dicono che l’attacco ai neuroni ed ai circuiti nervosi inizia almeno 15-20 anni prima della comparsa dei tipici disturbi della memoria», ha spiegato Paolo Maria Rossini, Direttore Area Neuroscienze, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS-Università Cattolica di Roma. «Questo perché nel nostro cervello c’è un numero enorme di cellule, circuiti e sinapsi “di riserva” in grado di sostituire quelli danneggiati o distrutti dalla malattia, fino a quando non si arriva a una soglia limite, superata la quale il meccanismo degenerativo diventa inarrestabile. Per questo il limite dei trattamenti terapeutici sin qui tentati è quello di essere somministrati in presenza di una sintomatologia già conclamata, corrispondente ad una fase di malattia in cui le riserve del cervello sono esaurite. In sostanza, è come voler curare il cancro in un paziente plurimetastatico. Per questo motivo, gli sforzi della ricerca sono tesi a individuare le caratteristiche prodromiche, precocissime e spesso visibili solo con l’ausilio di esami strumentali, così da intervenire il prima possibile con trattamenti specifici e adeguati supporti tecnologici».

«L’Alzheimer non colpisce solo il malato ma l’intero nucleo familiare, e soprattutto il caregiver che se ne prende cura ogni giorno, spesso per anni, sottoposto allo stress, alla stanchezza, e alla sofferenza di vedere il proprio caro perdere sempre più la propria storia, i propri affetti, il proprio stile di vita». ha ricordato Patrizia Spadin, Presidente AIMA-Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. «La famiglia ha perciò bisogno di essere appoggiata lungo il percorso di malattia, di acquisire le conoscenze necessarie per stare vicino al malato, ma anche di poter contare sui servizi di presa in carico. Le tecnologie digitali possono contribuire al miglioramento della qualità di vita di tutti i soggetti coinvolti. E i social network possono essere degli straordinari alleati perché consentono di vivere la malattia in una dimensione collettiva e partecipata, che aiuta ad avere una maggiore consapevolezza del problema».

di Paola Trombetta

 

A Monza il “Paese ritrovato”

Ricostruire il tessuto sociale di un piccolo paese, a misura di persona, con tanto di chiesa, negozi, bar, parrucchiere, cinema per far sentire il malato di Alzheimer a proprio agio, in un contesto simile a quello dove prima viveva. E’ l’esperienza pilota della Cooperativa “La Meridiana” di Monza che ha creato un vero e proprio “Paese ritrovato” (www.ilpaeseritrovato.it), riproducendo in miniatura la struttura di un contesto urbano vero e proprio. «Il “paese” si estende su una superficie di 15 mila metri quadri, dove vivono al momento 32 persone con Alzheimer, residenti in appartamenti di 400 mq, che comprendono otto camere da letto con bagno personale e diverse stanze comuni, come il salone di ritrovo per le attività ricreative, gestite da operatori sociali specializzati», illustra Marco Fumagalli, ideatore di questa iniziativa e responsabile dell’Ufficio Comunicazioni della cooperativa “La Meridiana” che ha realizzato il progetto. «L’obiettivo di questa iniziativa è quello di far vivere il malato di Alzheimer in un contesto il più reale possibile, che conservi i ricordi del passato e che sia proiettato al futuro. C’è poi il supporto concreto dell’assistenza continua nelle 24 ore e la possibilità di trascorrere ore per la riabilitazione in palestra e per incrementare la socialità, con pomeriggi dedicati al gioco a carte, a scacchi, passeggiate nei prati, coltivazione dell’orto. Da quando è nato questo “paese virtuale” (25 giugno) stiamo monitorando la situazione “clinica” degli abitanti e ci auguriamo di evidenziare progressi anche nel decorso della malattia. Contiamo inoltre, per la fine dell’anno, di aumentare il numero degli abitanti del paese e arrivare almeno a una quarantina di residenti».  P.T.

 

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