CONGELARE GLI OVOCITI PER DIVENTARE MAMMA DOPO UN TUMORE

Ha ormai 4 anni il bimbo che Alberta ha messo al mondo nell’aprile 2012, la prima donna ad aver concepito un figlio dopo un tumore al seno, con la conservazione dei propri ovociti. Alberta e il marito, su consiglio dell’oncologo, si erano rivolti al Centro di Procreazione medicalmente assistita diretto dalla dottoressa Eleonora Porcu, al Policlinico Sant’Orsola di Bologna. «Il percorso seguito è una prassi consolidata da diversi anni nel nostro Istituto», conferma la dottoressa Porcu. «Stimolazione ovarica, specifica per donne con tumore al seno, poche settimane prima della chemio, prelievo e congelamento degli ovociti. Poi Alberta si sottopose a sei cicli di chemioterapia e all’ormonoterapia per cinque anni. Al termine di questo periodo, in accordo con l’oncologo, ritornò da noi e decidemmo di scongelare quattro ovociti, ottenendo tre embrioni che abbiamo impiantato in utero. Dopo 12 giorni uno di questi aveva attecchito e stava crescendo. Non dimenticherò mai la gioia che vidi negli occhi di Alberta e del marito quando comunicai loro la notizia…Oggi Alberta ha 43 anni, sta bene e non ha più avuto ricadute. Anche il suo bimbo è in perfetta salute e frequenta la scuola materna».

Così Eleonora Porcu ricorda la gravidanza della prima donna in Italia che ha partorito dopo aver congelato i propri ovociti, in seguito a un tumore. E altri cinque bambini, nel frattempo, sono nati al Policlinico Sant’Orsola da mamme con tumore al seno che hanno conservato i propri ovociti.

Ma quante sono oggi le donne che, come Alberta, hanno avuto un tumore e ricorrono alla conservazione degli ovociti? Meno del 10% di chi ha avuto una diagnosi di tumore accede a una delle tecniche di preservazione della fertilità. Il numero è leggermente superiore tra gli uomini, ma ancora troppo basso. Nel nostro Paese ci sono 319 centri oncologici e 178 i centri di Procreazione medicalmente assistita che praticano non solo la fecondazione in vitro, ma anche la crioconservazione dei gameti. Non sono molti e per questo è necessario implementare la comunicazione tra queste due realtà, creando una Rete nazionale dei centri di oncofertilità che consenta ai pazienti di rivolgersi a strutture pubbliche organizzate per fare fronte a queste esigenze. E’ la richiesta contenuta nelle Raccomandazioni sull’Oncofertilità firmate dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), dalla Società Italiana di Endocrinologia (Sie), dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetrica (Sigo) e presentate i giorni scorsi a Roma. Ogni anno nel nostro Paese circa 8 mila persone under 40 (5 mila donne e 3 mila uomini) sono colpiti da tumore, 30 ogni giorno, pari a circa il 3% del numero totale delle nuove diagnosi.

«Il desiderio di diventare genitori dopo la malattia è stato per troppo tempo sottovalutato –  afferma il professor Paolo Scollo, presidente Sigo –. Questo documento, indirizzato alle Istituzioni, riassume i principi chiave da seguire per un cambiamento sostanziale. In ogni Regione dovrebbe essere istituito almeno un Centro di riferimento in cui operino team multidisciplinari composti da ginecologi, senologi, andrologi, biologi e psicologi collegati in rete con i centri oncologici ed ematologici che abbiano esperienza nella gestione di pazienti in età fertile. In questo modo potranno essere applicati i più aggiornati e validati strumenti diagnostici, terapeutici, laboratoristici e chirurgici così da garantire ai malati un percorso di cura appropriato e uniforme in tutta Italia».

Le principali tecniche di preservazione della fertilità nella donna sono la crioconservazione degli ovociti o del tessuto ovarico e l’utilizzo di farmaci (analoghi LH-RH) per proteggere le ovaie; nell’uomo la crioconservazione del seme o del tessuto testicolare. Il materiale biologico può rimanere crioconservato per anni ed essere utilizzato quando il paziente ha superato la malattia.

«Per i cittadini la Rete costituirà un grande vantaggio perché, dal momento in cui al paziente viene diagnosticata una neoplasia, l’oncologo sarà in grado di metterlo direttamente in contatto con il centro pubblico di riferimento per procedere, dopo adeguato counselling, alla crioconservazione dei gameti prima dell’inizio delle terapie», puntualizza il professor Carmine Pinto, presidente nazionale Aiom. «La consulenza specialistica dovrà infatti avvenire entro 24-48 ore. Diversamente da quanto accade nell’uomo, nella donna l’utilizzo di alcune tecniche è associato a un ritardo nell’inizio dei trattamenti antineoplastici: da qui l’importanza di avviare quanto prima le pazienti agli esperti in questo campo».

I più comuni tipi di cancro nei giovani sono per l’uomo il tumore del testicolo, del colon-retto, della tiroide, il melanoma e il linfoma non-Hodgkin, mentre per la donna il carcinoma mammario, della tiroide, della cervice uterina, del colon-retto e il melanoma.

«Al Ministro della Salute chiediamo di attivare un confronto con le società scientifiche per programmare il numero, le dimensioni, la distribuzione territoriale per la definizione di un Centro», aggiunge il professor Andrea Lenzi, presidente Sie. «Uno dei nostri obiettivi è anche migliorare fra i clinici la cultura della preservazione della fertilità dopo il cancro». Nelle giovani sottoposte a trattamenti antitumorali, sono due le preoccupazioni principali nei confronti di una gravidanza: da un lato i possibili effetti nocivi delle terapie sullo sviluppo del bambino; dall’altro le conseguenze della gestazione sulla donna in termini di ripresa, in particolare in caso di neoplasie ormono-sensibili come quelle del seno. «Riguardo al primo punto, i dati disponibili non dimostrano un aumento del rischio di difetti genetici o di altro tipo nei bambini nati da donne precedentemente sottoposte a terapie antineoplastiche», precisa il professor Scollo. «Per quanto riguarda il secondo aspetto, le pazienti che hanno avuto un figlio dopo la diagnosi di tumore mammario non hanno una prognosi peggiore rispetto alle altre. Al contrario, i risultati di uno studio, condotto su 1.244 donne, segnalerebbero addirittura un effetto protettivo della gestazione, con una significativa riduzione del rischio di morte. Va quindi ritenuta definitivamente caduta la storica controindicazione alla gravidanza nelle pazienti con pregresso carcinoma mammario. Nonostante non sussistano reali controindicazioni, la quota di chi ha almeno un figlio dopo la diagnosi di carcinoma mammario è tuttora molto bassa: solo il 3% tra le donne di età inferiore a 45 anni e l’8% se si considerano le under 35». Anche per i giovani pazienti maschi, non esiste alcuna evidenza scientifica che una precedente storia di cancro aumenti il tasso di anormalità congenite o di tumori nella loro prole.

«è importante che tutte le persone con diagnosi di tumore in età riproduttiva vengano adeguatamente informate della possibile riduzione della fertilità in seguito ai trattamenti antitumorali e, al tempo stesso, delle strategie oggi disponibili per bypassare questo rischio», conclude il professor Scollo. «Le Raccomandazioni indicano gli sforzi che dovrebbero essere messi in atto per aumentare lo scambio di informazioni fra i clinici per puntare non solo alla guarigione dei malati, ma anche al mantenimento dei loro obiettivi futuri, compresi quelli di un progetto genitoriale».

 

di Paola Trombetta

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