EMOFILIA: IN ARRIVO TERAPIE INNOVATIVE, COMODE DA SOMMINISTRARE

«A mio figlio, la diagnosi di emofilia, malattia genetica rara che comporta la mancata coagulazione del sangue, è stata fatta fin dalla nascita. Per fortuna in una forma non grave, che non ha mai messo in pericolo la sua vita. Il rischio di emorragie, dopo una semplice caduta, è sempre stato scongiurato con la somministrazione al bisogno di terapie a base di fattori della coagulazione». Così Cristina Cassone, oggi presidente della Federazione delle Associazioni Emofilici (FedEmo), in occasione della Giornata mondiale dell’Emofilia (17 aprile), racconta la malattia del figlio che oggi ha 11 anni, sottolineando i disagi di molti pazienti, soprattutto adolescenti, che rischiano dopo una banale caduta, di avere emorragie importanti che potrebbero anche mettere a repentaglio la vita, se non si interviene tempestivamente con i farmaci mirati.

«Il nostro impegno come associazione è rivolto a implementare la ricerca di nuovi farmaci e renderli disponibili a tutti i pazienti in ogni Regione», sottolinea la dottoressa Cassone. «Un altro obiettivo è creare in tutt’Italia Centri per l’assistenza e la cura di questi malati, 5 mila persone sul territorio nazionale. Ogni anno vengono diagnosticati circa 20 bambini nel primo anno di vita. In presenza di familiarità per questa malattia, la diagnosi può essere eseguita anche prima della nascita. L’emofilia colpisce soprattutto i maschi, mentre le donne sono portatrici sane del gene alterato che si trasmette con il cromosoma X. Per questo le donne solo in rarissimi casi si ammalano: quando il padre è affetto da emofilia e la madre a sua volta portatrice. Segnali caratteristici della malattia sono la comparsa di ecchimosi (piccole emorragie sottocutanee) nelle parti del corpo in cui i bambini vengono sollevati. Oppure possono andare incontro a vere e proprie emorragie, con ematomi e tumefazioni dolorose a livello delle articolazioni, ginocchio, caviglia, gomito, spalla, soprattutto in caso di traumi».

La forma più comune, di tipo “A” (un caso su 10mila maschi) è dovuta alla carenza del fattore VIII della coagulazione e richiede una somministrazione continua delle terapie. La forma “B” invece è meno grave ed è provocata dalla carenza del fattore IX della coagulazione: richiede terapie solo al bisogno. Oggi sono in via di sperimentazione nuovi farmaci che potrebbero consentire, per le forme più gravi, una o due infusioni a settimana, anche con somministrazioni sottocute. «La terapia oggi più utilizzata è basata sulla somministrazione per endovena dei fattori VIII e IX che favoriscono la coagulazione», spiega la professoressa Flora Peyvandi, direttore del Centro Emofilia e Trombosi “Angelo Bianchi Bonomi” del Policlinico di Milano. «L’infusione può avvenire solo in occasione degli episodi emorragici acuti (trattamento “on demand”) o periodicamente 2/3 volte la settimana. I farmaci attualmente in uso hanno l’inconveniente di avere una breve emivita, non superiore alle 24 ore. Per questo devono essere utilizzati più volte la settimana. Negli ultimi anni sono stati studiati prodotti ricombinanti che hanno portato a nuovi farmaci in cui i fattori della coagulazione sono stati associati a molecole, come il polietilen glicol (PEG), l’albumina o il frammento Fc delle immunoglobuline, che aumentano l’emivita, riducendo la frequenza di somministrazione a una sola volta alla settimana. Allo studio anche altri farmaci (anticorpi monoclonali e piccole molecole di RNA) che, in associazione ad anticoagulanti naturali, migliorano ulteriormente il regime di profilassi, con una sola iniezione sottocute, a intervalli da 1 a 4 settimane. Questo tipo di somministrazione sottocutanea faciliterà sicuramente l’aderenza dei pazienti alla profilassi, soprattutto in età adolescenziale, quando è maggiore il rischio di traumi e cadute».

di Paola Trombetta

 

AL VIA IL PROGETTO “BARRIERA ZERO” PER AIUTARE GLI ADOLESCENTI A PARLARE DELLA MALATTIA

In occasione della XII edizione della Giornata Mondiale dell’Emofilia (17 aprile), è partito il progetto “Barriera Zero” per aiutare i giovani emofilici a convivere serenamente con la propria malattia, promosso dalla Fondazione Paracelso Onlus, in collaborazione con FedEmo (Federazione delle Associazioni Emofilici) Onlus e con il contributo non condizionato di Sobi Italia. “Barriera Zero” è dedicato agli adolescenti, ma è aperto anche ai giovani fino ai 24 anni di età (per un totale di 16 partecipanti) che vorranno confrontarsi, seguiti da tre esperte, non solo sulla malattia, ma sulla propria vita a tutto tondo. In concreto, il progetto prevede due incontri l’anno, di tre giornate ciascuno, in un contesto informale in cui i ragazzi si sentano a proprio agio. Il primo dei due appuntamenti è previsto dal 23 al 26 giugno, mentre il secondo si svolgerà a dicembre.

«Durante questi “incontri” tre professioniste, Alessandra Stella, Sonja Riva e Clarissa Bruno, rispettivamente formatrice, mediatrice familiare e fisioterapista, si alterneranno alla conduzione del gruppo – spiega Andrea Buzzi, Presidente di Fondazione Paracelso –. I ragazzi saranno coinvolti in attività orientate a stimolare la riflessione su se stessi e la discussione sulla malattia, ma non mancheranno i momenti ludico-ricreativi». Entrambi gli incontri prevedono anche una serie di attività fisiche sotto la guida della dottoressa Bruno. «La condivisione di un tempo e di uno spazio rappresenta, secondo noi, la situazione migliore per favorire l’ascolto e lo scambio reciproco».
Non è escluso, infatti, che, durante le cosiddette “crisi adolescenziali”, si abbia un improvviso rifiuto della malattia, fonte di problemi anche sotto il profilo relazionale. «Questo potrebbe portare a una scarsa aderenza terapeutica o a un isolamento dai coetanei per le difficoltà a parlare apertamente della propria condizione – sottolinea Stefania Farace, segretario generale di FedEmo Onlus –. Sono ragazzi curati sin da piccoli con la terapia sostitutiva che, tendenzialmente, non hanno subito gravi danni muscolari o articolari».
Adolescenti, quindi, che potrebbero non comprendere quanto la terapia sia fondamentale per loro. Ecco perché la condivisione delle proprie esperienze e paure è, secondo Fondazione Paracelso e FedEmo Onlus, il modo migliore per favorire l’ascolto e lo scambio reciproco su un problema così delicato e giungere insieme a una soluzione propositiva per affrontarlo. (P.T.)

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