TUMORE AL SENO: “COSI’ LO ABBIAMO SCONFITTO”

Gabriella ha avuto la diagnosi di tumore al seno quando aveva 37 anni. Un tipo di tumore particolarmente aggressivo, con il gene BRCA 1 alterato, che aveva colpito anni addietro anche la sorella. Dopo l’intervento chirurgico, si è sottoposta alla chemioterapia e non si è mai data per vinta. L’attività fisica l’ha aiutata moltissimo a riprendere forza e fiducia in se stessa. Tanto che lo scorso ottobre ha partecipato alla Maratona di New York. E quest’anno ha vinto la “maratona della vita”, con la nascita di due bimbi: Bianca e Lorenzo.

Anche a Valentina è stato diagnosticato il tumore 5 anni fa, quando aveva 37 anni. Ed era alla 25a settimana di gravidanza. Alla preoccupazione per la malattia si aggiungeva l’ansia che la chemioterapia potesse far male alla piccola che portava in grembo. Ma oggi per fortuna si utilizza una particolare somministrazione di farmaci che non provoca danni al feto (vedesi: Nuove terapie target). E così è nata Anna, una bimba perfettamente sana che oggi ha 5 anni. Le storie di Gabriella e Valentina si intrecciano con quelle di tante altre donne, 48 mila all’anno, che si ammalano di tumore al seno. Molte delle quali raccontano senza timore la loro malattia. E alcune, come Arianna, Marica, Donatella l’hanno addirittura illustrata in un cortometraggio intitolato “Segni”, per la regia di Agnese Rizzello, presentato i giorni scorsi a Roma. Per fortuna oggi, grazie alla scoperta di nuove terapie, più efficaci e personalizzate, e alla diagnosi precoce, ben otto pazienti su dieci riescono a sconfiggerlo.

«Se la malattia viene identificata nelle fasi iniziali e adeguatamente curata, la sopravvivenza può arrivare fino al 98%», puntualizza il professor Umberto Veronesi, promotore con la sua Fondazione della Campagna “Pink is Good” per la prevenzione del tumore al seno che proseguirà per tutto il mese di ottobre. «La prevenzione è un’arma fondamentale. Come Fondazione stiamo elaborando una proposta al Ministero della Salute per estendere lo screening mammografico alle donne dai 40 ai 75 anni (oggi comprende solo la fascia d’età da 50 a 70 anni). Da valutare anche l’ipotesi di proporla annualmente, anziché ogni due anni. Come pure da valutare la possibilità di offrire gratuitamente alle donne dai 35 ai 50 un’ecografia mammaria annuale, più adatta ai tessuti più densi di un seno giovane».

In Italia sono attivi programmi di screening organizzati dalle singole ASL che inviano ogni due anni una lettera di avviso alle donne di età compresa tra 50 e 69 anni. Ma molte di loro non eseguono periodicamente questo test, soprattutto al Sud: sembra addirittura che il 30% non abbia mai eseguito una mammografia, pur essendo questo esame gratuito. Si passa da un’adesione massima del 76% in provincia di Trento, al 20% della Campania e 26% della Calabria.

«Come Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) insistiamo sulla necessità ogni due anni di sottoporsi alla mammografia, l’unico strumento in grado di fare diagnosi precoce di tumore», ribadisce il professor Carmine Pinto, presidente AIOM. «Grazie a questo esame, il 25% dei tumori accertati ha dimensioni inferiori a due centimetri. In questo modo possiamo intervenire subito, con la massima efficacia. Quando riusciamo a individuare tempestivamente la malattia, la sopravvivenza della donna raggiunge il 90%».

 

LE NUOVE TERAPIE TARGET

La diagnosi precoce rimane a tutt’oggi l’arma più importante ed efficace nella cura dei tumori della mammella. Generalmente dopo l’asportazione chirurgica della neoplasia segue una terapia sistemica (ormonoterapia, chemioterapia +/- terapia biologica) e, per interventi conservativi della ghiandola mammaria, la radioterapia.  La maggior parte dei carcinomi della mammella (70-75%) presenta recettori ormonali: questo vuol dire che il 70-75% (circa 36 mila) delle 48 mila donne  che annualmente ammalano in Italia di tumore della mammella, potrà allora avvalersi della terapia ormonale. «Storicamente il farmaco che ha rivoluzionato la prognosi del tumore al seno ormono-responsivo è stato il tamoxifene», conferma il professor Giuseppe Naso, docente di Oncologia alla Sapienza Università di Roma. «Si tratta di una molecola che blocca parzialmente il recettore degli estrogeni, ormoni che alimentano la proliferazione tumorale. Questa terapia è stata la prima forma di terapia mirata su un bersaglio, in questo caso il recettore per gli estrogeni, che ha dimostrato nel corso degli anni una grande efficacia sia nella prevenzione delle recidive, sia nel controllo sistemico della malattia. In epoca relativamente recente, le nuove ricerche hanno portato alla scoperta di un’altra categoria di molecole, gli inibitori dell’aromatasi, che bloccano la conversione dei precursori degli ormoni femminili, testosterone e ediepiandrostenedione, in estrogeni. E attualmente è questa categoria di farmaci che risulta quella più usata nella pratica clinica. Ma la scoperta più attuale riguarda la molecola fulvestrant, che viene definita dagli specialisti un super-tamoxifene in quanto, a differenza di quest’ultimo, blocca  completamente i recettori per gli estrogeni, presenti in tutto l’organismo. Il recente studio FIRST, che ha coinvolto 205 pazienti provenienti da 62 centri in 9 nazioni, pubblicato sul Journal of Clinical Oncology, ha dimostrato che fulvestrant, assunto a dosaggi di 500 mg rispetto ad anastrozolo (inibitore dell’aromatasi), ha aumentato la sopravvivenza di sei mesi, un dato di rilevanza clinica importante. Se questi  risultati troveranno conferma nello studio di fase 3 randomizzato denominato FALCON, attualmente in corso, fulvestrant potrebbe rivelarsi il farmaco di eccellenza per il trattamento del tumore al seno metastatico ormono-responsivo, evitando gli effetti collaterali degli inibitori dell’aromatasi, in particolare osteoporosi e depressione».

Abbiamo fin qui parlato di terapie per i tumori ormono-responsivi. E per l’altro 25-30% di tumori, quelli cioè per i quali non è possibile utilizzare la sola terapia ormonale, quali cure sono previste? «Nei casi di tumori in cui è presente la proteina HER 2 (Her 2 +) esistono terapie target che bloccano l’azione di questa sostanza, responsabile della proliferazione delle cellule tumorali. Se invece il tumore non ha questa proteina, né i recettori per gli estrogeni e quello per il progesterone, (si parla in questi casi di tumore “triplo negativo”), occorre utilizzare una chemioterapia convenzionale, a base di antracicline e taxani, aggiungendo il carboplatino per quei tumori cosidetti triplo negativi che insorgono in donne BRCA1/2 mutate. A questi chemioterapici si può aggiungere il farmaco bevacizumab, uno dei più potenti inibitori dell’angiogenesi. In conclusione possiamo dire che, con tutte queste terapie, la sopravvivenza media del tumore al seno con metastasi è oggi più che triplicata rispetto a quella ottenibile 10-15 anni fa». Un ulteriore progresso riguarda la somministrazione di alcuni farmaci anche nelle donne che scoprono di avere un tumore in gravidanza. A questo proposito è partito da qualche anno un protocollo di ricerca, finanziato dall’AIRC, e condotto dall’Unità Sviluppo Terapie Innovative dell’Ospedale San Martino-Istituto dei Tumori di Genova. «Lo studio è abbastanza recente e la casistica riguarda una ventina di donne che hanno scoperto il tumore in gravidanza», conferma la professoressa Lucia Del Mastro, coordinatrice del Progetto. «Si è visto che somministrando queste sostanze chemioterapiche con una lenta infusione endovenosa per 72 ore, che richiede perciò il ricovero di tre giorni in ospedale, non si sono registrati effetti collaterali sul piccolo che nascerà. L’importante è calcolare la giusta dose di farmaco e il tempo ideale per somministrarlo che dovrebbe essere ogni 3 settimane. Fondamentale è poi la programmazione della data del parto che non deve avvenire quando la donna, dopo 10 giorni dalla somministrazione, ha un calo consistente delle difese immunitarie. In questi casi, la collaborazione tra oncologo e ginecologo è fondamentale».

di Paola Trombetta

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