EFFETTO REBOUND DEL “GENE JOLIE”

L’esempio di Angelina Jolie, che si è sottoposta a un intervento di mastectomia bilaterale preventiva, per scongiurare il rischio di ammalarsi dello stesso tumore al seno che ha provocato la morte della madre e della zia, è stato imitato dal 63% delle donne americane, portatrici di una mutazione accertata BRCa1 o 2. Lo ha rivelato uno studio della Harvard School of Public Health di Boston. Completamente differente la situazione italiana dove non sembrano essere aumentate, se non di poco, le mastectomie preventive, che si attestano intorno al 20% delle donne con mutazione dei geni BRCa1 e 2.

Perché una donna decide di sottoporsi a questo intervento tanto demolitivo?

Lo abbiamo chiesto a Silvia Mari, 34 enne romana, che all’età di 28 anni ha deciso di farsi asportare entrambi i seni e ha raccontato la sua storia nel libro “Il rischio” (Ass.Fontes).

«Non è stata una scelta facile, ma il risultato di un percorso iniziato durante gli ultimi anni di liceo, quando gran parte della famiglia materna, compresa mia madre, è venuta a mancare a causa di tumori al seno e all’ovaio nel ramo femminile, e al pancreas nel ramo maschile. Mi ero rivolta all’ambulatorio dell’IFO all’Istituto Regina Elena di Roma, dove ero stata indirizzata a entrare in uno screening di sorveglianza speciale. Il sospetto che nella mia famiglia ci fosse un rischio genetico al cancro era fortissimo e alla fine, presso il Centro Studi Militare dell’Esercito Italiano, ho effettuato il test che ha confermato la mutazione genetica BRCa 2, legata a un alto rischio (87%) di sviluppare un tumore al seno e 50% di tumore all’ovaio. Per tre lunghi anni ho vissuto nell’incubo di una diagnosi nefasta, costretta a controlli così ravvicinati (mammografia ogni sei mesi, intervallata a ecografia al seno, ecografia trasvaginale ogni sei mesi, risonanza magnetica una volta all’anno) che mi impedivano di programmare la vita, condizionata dall’ansia di tutte queste scadenze. E poi non potevo tollerare l’idea che avrei potuto fare la fine di mia madre, morta a soli 36 anni, solo perché non avevo fatto tutto quanto era possibile! E così a 28 anni ho preso la coraggiosa decisione di farmi operare. Certo è stata una scelta dura: avevo un seno che mi piaceva molto e volevo conoscere il gusto della progettualità, di pensare al futuro. Mi sono rivolta all’Ospedale Sant’Andrea dove mi hanno assistita con estrema professionalità e dedizione. Contestualmente all’intervento chirurgico, è stata fatta la ricostruzione con protesi e muscolo. Quando mi sono risvegliata dall’intervento, non mi sono vista “mutilata”, come era stata mia madre dopo l’asportazione del tumore. Anzi ho provato un senso di “liberazione” perché avevo fatto tutto quello che potevo per non ammalarmi di quello stesso tumore che aveva distrutto la mia famiglia!».

Quando fare il test genetico

Un tumore ereditario che colpisce circa 3000-5000 donne l’anno (5-10% dei tumori al seno) appartenenti a famiglie che hanno mutazioni di questi geni (BRCa1 e/o 2). Senza cadere negli eccessi di fare test genetici in modo indiscriminato, con l’aiuto della professoressa Adriana Bonifacino, responsabile dell’Unità di Senologia dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma, cerchiamo di fare chiarezza.

Chi realmente deve sottoporsi a questi esami?

«Sicuramente chi ha un familiare con la mutazione di uno di questi geni (BRCa1 e 2). Chi ha avuto in famiglia almeno due casi di tumore al seno prima dei 50 anni; un caso sotto i 35 anni; tre casi di tumore al seno a qualunque età. Chi ha nei familiari casi di tumore al seno e all’ovaio o tumore al seno bilaterale, o un tumore sviluppato al di sotto dei 35 anni. E infine chi ha tra i parenti anche un solo caso (molto raro) di uomo con tumore al seno. E’ fondamentale, comunque, che la prima persona a sottoporsi a consulenza genetica, che confermerà poi se fare il test (prelievo di sangue), sia affetta da malattia. Il prelievo non va effettuato su persone sane, senza aver prima dimostrato la presenza di queste mutazioni in famiglia».

A chi rivolgersi in questi casi?

«E’ indispensabile rivolgersi a Centri specializzati per lo studio della genetica e delle malattie ereditarie, dove il personale addetto (oncologo e genetista) valuterà, caso per caso, la necessità di sottoporsi al test genetico. Nelle strutture pubbliche si paga un ticket che va da 50 a 300 euro; nel privato il costo dell’esame genetico può superare 1.500 euro».

E cosa fare quando il test genetico trova la mutazione dei geni BRCa 1 e/o 2?

«In questo caso la paziente rientra in un gruppo di sorveglianza speciale, con controlli più ravvicinati nel tempo: una risonanza magnetica e due ecografie mammarie all’anno, a partire dai 25 anni, e dai 30 anche la mammografia annuale. Si aggiunge, annualmente, l’ecografia pelvica trasvaginale per lo studio dell’ovaio. Si tratta di un percorso di prevenzione difficile che, in molte donne, genera ansia. Alcune di loro, dopo qualche anno, propendono per la mastectomia preventiva che riduce il rischio di sviluppare un tumore dall’87% al 5%».

Non esistono farmaci per la prevenzione?

«Sono in corso studi clinici, ai quali partecipano l’Ospedale Sant’Andrea, lo IEO e l’Istituto dei Tumori di Milano, che prevedono l’utilizzo del tamoxifene (5 e 10 mg) a scopo preventivo, nelle donne con mutazioni genetiche BRCa 1 e 2. Ma i risultati non si avranno prima di diversi anni e al momento non vi sono certezze sull’efficacia di questa terapia preventiva. In ogni caso non bisogna dimenticare l’importanza dello stile di vita: alimentazione corretta, attività fisica, niente fumo sono importanti fattori di prevenzione dei tumori, anche di quelli ereditari».

di Paola Trombetta

 

Un’indagine rivela bisogni e speranze delle donne con metastasi                         

Donne giovani e vitali. Lottano con coraggio contro la malattia, ma chiedono di non essere lasciate sole nella loro battaglia. Hanno un forte bisogno di informazione e di nuove terapie. E’ il profilo delle donne con tumore alla mammella metastatico, delineato da una recente indagine, curata da GfK Eurisko per Europa Donna. Oltre 80 quelle coinvolte nello studio: di età media intorno ai 54 anni, circa il 30 per cento con meno di 45 e una vita affettiva, relazionale, familiare molto intensa. La maggioranza è infatti sposata, la metà ha un figlio minorenne e il 40 per cento lavora, non diversamente dalle donne italiane nella stessa fascia d’età. «In Italia ogni anno vengono diagnosticati circa 12mila nuovi casi di carcinoma mammario metastatico. Ad oggi, le donne colpite nel nostro Paese da tumore al seno sono circa 30mila, più di quelle che soffrono di altri tumori femminili, quali all’utero e all’ovaio. L’attenzione, sia da parte degli operatori sanitari sia dei media, si concentra spesso su altre forme tumorali o, nel caso del carcinoma mammario, ci si sofferma sui casi, fortunatamente la maggioranza (circa l’87 per cento), che guariscono», commenta Lucia Del Mastro, oncologa dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova. «Di conseguenza le pazienti con carcinoma mammario metastatico manifestano spesso una sensazione di abbandono e di isolamento». Un aspetto che emerge anche dai dati dell’indagine.

Per il 70 per cento delle intervistate è forte il bisogno di aiuto nella quotidianità da parte delle persone vicine (marito e figli), mentre 2 donne su 3 richiedono un maggior ascolto e supporto, soprattutto da parte del medico, con più informazioni sulla malattia e sul trattamento. Secondo i dati dell’indagine le principali necessità terapeutiche sono legate soprattutto a una migliore gestione degli effetti collaterali: riuscire a prevenirli è ritenuto molto importante per l’80 per cento delle intervistate, come poterli gestire con farmaci specifici (73%), avere accesso a terapie gratuite e rivolgersi allo specialista nei momenti di bisogno (76%).

In particolare, la comparsa delle metastasi ossee crea un impatto emotivo di forte ansia e preoccupazione. Ed è proprio contro le metastasi che si vuole combattere, per arrestare o stabilizzare il progredire della malattia e poter vivere con speranza la propria quotidianità. Fondamentale, per le intervistate, disporre di un trattamento specifico contro l’evoluzione della malattia. «E’ da poco disponibile anche in Italia un nuovo farmaco, il denosumab, un anticorpo monoclonale che, rispetto ai difosfonati, riduce ulteriormente l’incidenza delle complicanze scheletriche e ne ritarda la comparsa. Il tempo mediano che intercorre tra la diagnosi di metastasi ossee e lo sviluppo di complicanze scheletriche è passato da circa 11 mesi in assenza di terapie specifiche a circa 26 mesi con l’utilizzo del difosfonato a oltre 32 mesi con denosumab». L’osso è il primo sito dove si generano metastasi nel 75 % circa delle pazienti con carcinoma mammario metastatico. La mancata applicazione di trattamenti specifici, oggi disponibili per il trattamento delle metastasi ossee, determina lo sviluppo di complicanze scheletriche nel 65% delle pazienti. «Con l’applicazione di terapie specifiche è possibile, per un periodo molto lungo rispetto alle aspettative, evitare l’insorgenza di complicanze che possono compromettere la qualità di vita, rispettando i bisogni di queste pazienti sul piano sociale, lavorativo e familiare. Denosumab, la cui somministrazione avviene per via sottocutanea anziché endovenosa, può anche contribuire a sopportare meglio le terapie».

(Luisa Romagnoni)

Articoli correlati