UN SOGNO PER L’AFRICA, CONTRO L’AIDS

Ottocento donne perdono la vita ogni giorno nel mondo per le complicanze di una gravidanza o di un parto. Statistiche alla mano, nei prossimi anni potrebbero morire tre milioni di madri, quasi tutte nei Paesi in via di sviluppo. Di recente l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha lanciato un appello per salvare tre milioni di donne entro il 2015, eliminando la mortalità da parto. Tra i progetti è stato presentato i giorni scorsi a Roma “MSD For Mothers” (www.merckformothers.com) che prevede un contributo di 500 milioni di dollari in dieci anni per finanziare iniziative di assistenza sanitaria, farmaceutica, formazione di operatori sanitari e informazione delle popolazioni nell’Africa subsahariana e in Asia Meridionale. Il progetto si concentra su alcune delle principali cause di mortalità materna: le emorragie post-partum e la pre-eclampsia o ipertensione gestazionale, oltre alla prevenzione e cura delle infezioni da HIV. Su questo fronte MSD Italia sostiene in Mozambico il “Programma DREAM” (www.dreamsantegidio.org), avviato dalla Comunità di Sant’Egidio in dieci Paesi africani per contrastare la diffusione dell’AIDS e in particolare la trasmissione del virus dell’HIV da madre a figlio. Avviato nel 2002 in Mozambico, in pochi anni si è esteso in altri Paesi africani: Malawi, Tanzania, Kenya, Nigeria, Repubblica del Congo, Guinea Bissau, Repubblica di Guinea, Camerun, Angola.

Per conoscere più di vicino questa iniziativa, abbiamo intervistato Paola Germano, responsabile esecutivo del Progetto DREAM.

 

L’obiettivo del progetto “MSD For Mothers” è la riduzione della mortalità materna. In che modo il programma DREAM può contribuire a questo risultato?

«In Africa il tasso di diffusione dell’HIV è elevatissimo: in alcuni Paesi arriva al 14-15% e le donne sono le più colpite. Parliamo di giovani donne in età fertile che rimangono incinte e affrontano la gravidanza sotto la minaccia dell’HIV, fattore che pregiudica la possibilità di far nascere un figlio sano ma anche di portare a termine la gravidanza e può compromettere la stessa sopravvivenza delle madri. Una donna che arriva al parto con un’infezione acuta rischia seriamente di morire. Ecco perché trattare le donne in gravidanza con la triplice terapia antiretrovirale, la stessa utilizzata nei Paesi occidentali, permette di raggiungere due obiettivi importantissimi: consente alle donne di sopravvivere al parto, riducendo moltissimo la mortalità materna, e garantisce la nascita del bimbo sano, ponendo le basi per una generazione senza HIV. È un fatto ampiamente provato, sia da studi scientifici sia dalla nostra esperienza sul campo, che somministrando la terapia antiretrovirale alle donne sieropositive in gravidanza si blocca la trasmissione del virus al bambino, mentre le madri arrivano al parto con un tasso d’infezione quasi azzerato e possono quindi affrontarlo senza problemi».

 

Come si articola il programma? Quali attività vengono realizzate?

«Il fulcro è l’assistenza continua alle donne in gravidanza, anche dopo la nascita del bambino. Questo comporta una serie di iniziative sul territorio. L’azione fondamentale è la presa in carico delle donne che afferiscono ai Centri per la maternità e che vengono sottoposte ai test per accertarne la sieropositività. A quel punto, in presenza di infezione, è fondamentale accompagnare la donna lungo tutto l’iter della gravidanza assicurandosi che aderisca alla terapia antiretrovirale. Tutto questo presuppone altre azioni: formazione del personale sanitario, attività d’informazione alle future madri, supporto anche di tipo logistico, un sistema informatico per seguire tutte le donne assistite. Il sostegno non si concretizza dunque solo nel trattamento farmacologico: prevede l’assistenza domiciliare, supporto alla famiglia, collaborazione di altre donne che seguono la donna in gravidanza a casa aiutandola ad assumere la terapia. Inoltre è importante il supporto nutrizionale: queste donne in gravidanza con HIV sono piuttosto debilitate, quindi per arrivare a un parto sicuro insieme alle terapie hanno bisogno di un’alimentazione equilibrata, acqua filtrata. E questo cerchiamo di renderlo gratuito, aspetto tutt’altro che scontato in Africa e niente affatto secondario: la gratuità facilita l’adesione delle donne a tutto il percorso terapeutico, mentre eventuali costi potrebbero metterla a rischio. Altro elemento da sottolineare è che il programma va oltre la gravidanza e la nascita del bambino. Purtroppo in quelle aree del mondo la vita dei neonati è a rischio e non avrebbe senso far nascere un bimbo sano e poi perderlo per una polmonite o una diarrea. Quindi ci concentriamo sulla salute del bambino fino al primo anno di vita e ciò comporta l’educazione della madre e la formazione degli operatori sanitari».

 

Quali sono i risultati ottenuti fino a oggi? E le aspettative per il futuro?

«I risultati sono stati subito molto incoraggianti e questo ha generato un contagio virtuoso: dopo i primi successi molti si sono rivolti a noi per adottare la stessa strategia in altre realtà. Gli obiettivi del programma DREAM sono la riduzione drastica della mortalità materna, l’azzeramento della trasmissione dell’HIV da madre a figlio e la riduzione complessiva del tasso di infettività nella popolazione globale. L’impatto positivo di questi risultati sull’equilibrio delle comunità è enorme. Salvare una madre significa anche non vedere compromesso il futuro degli altri figli, oltre che la vita del nascituro. Uno dei grandi problemi dell’Africa è la generazione di orfani creati dall’HIV. Evitare che ciò accada ha enormi benefici di tipo sociale ed economico. Un altro risultato ottenuto è che maggiore è il numero delle persone sieropositive che si curano, minore è il numero delle persone che si contagiano e il tasso di infettività di una comunità si abbassa, avvicinandosi all’obiettivo di “arrivare a zero” raccomandato dalle Nazioni Unite. Infine c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato: l’approccio con la triplice terapia permette alle madri di allattare: importantissimo, perché una donna che non allatta subisce lo stigma della comunità».

 

Quali sono gli obiettivi a lungo termine?

«Mettere le strutture e gli operatori locali in condizione di “fare da soli”. Per arrivare a questo risultato non è sufficiente creare delle strutture in cui si danno le medicine, ci vuole un approccio che segua le donne in tutto il loro percorso, che le accompagni, che le sostenga anche risolvendo i vari problemi che si presentano, di natura sanitaria, sociale o psicologica. L’obiettivo è di riprodurre in quei Paesi le stesse strategie adottate in Occidente, lavorare sul piano della cultura delle popolazioni, dando piena fiducia agli operatori e alle popolazioni locali. Per attuare questo piano è stato fondamentale il supporto di MSD che ha adottato la nostra iniziativa nell’ambito del loro progetto “MSD For Mother”. Fino a oggi si è trattato di un programma circoscritto ad alcune realtà del Mozambico. Grazie al sostegno di MSD possiamo puntare all’obiettivo di estendere il programma a tutto il Paese, sulla base di un accordo con il Ministero della Sanità del Mozambico, col coinvolgimento delle strutture sanitarie pubbliche. Lavoreremo affiancando le strutture locali per ottenere gli stessi risultati su scala nazionale e non solo nei Centri da noi gestiti. Per ora il progetto firmato con il Ministero prevede l’attuazione del programma in 11 Centri, con la presa in carico di 5.700 donne in gravidanza nell’arco di tre anni. Credo però che supereremo abbondantemente questo numero».

 

di Paola Trombetta

 

Grazie a “DREAM” sono una donna con un futuro:

la testimonianza di Cacilda Isabel Massango

«Ho 36 anni e sono mozambicana. Nel 1996 con la morte di mio padre sono stata costretta a abbandonare gli studi, frequentavo il liceo e desideravo andare all’Università. Nel 2002 nasce mia figlia e subito dopo comincio a stare male, febbre altissima e perdita di peso, poi scopro di essere sieropositiva. Sembrava impossibile una cura, una terapia che mi potesse far continuare a vivere. L’unico rimedio sembrava essere il medico tradizionale. In Ospedale un infermiere, parlando con una paziente, mi disse della possibilità di cura per l’AIDS presso il Centro DREAM della Comunità di Sant’Egidio a Machava un po’ fuori Maputo, dove le cure erano gratuite. Mi sembrava impossibile! Anche la mia piccola era malata: andare al Centro DREAM fu il primo passo di un cammino lungo di speranza che mi ha portato fino a qui.

La cura antiretrovirale mi ha salvato la vita: oggi sono mamma di una bambina di 11 anni, anche lei in cura: entrambe stiamo bene.

In questi anni ho maturato una coscienza di donna e madre, che può aiutare e appoggiare gli altri. Ho così iniziato a lavorare come volontaria nei Centri DREAM, sostenendo e incoraggiando tanti malati, la mia vita e la mia testimonianza dà speranza, fa uscire dalla rassegnazione e dalla condanna che tutto è impossibile.

Ho avviato insieme alla Comunità di Sant’Egidio un programma di Adozioni a Distanza per sostenere le mamme e i bambini, questo mi ha condotto in tante case, a conoscere famiglie e a sostenerle concretamente, anche nell’educazione sanitaria e nutrizionale. Oggi sono una donna che ha un futuro e come madre mi sento responsabile di costruirlo non solo per la mia bambina ma per un’intera generazione, per un’Africa migliore. Ho ripreso a studiare, tanti sogni si sono realizzati, lo scorso anno mi sono laureata in Filosofia e Etica con una tesi sulla “Dignità Umana secondo Kant”, oggi sono Responsabile Sociale del programma DREAM in Mozambico, coordino le attività e la gestione del lavoro comunitario e nell’appoggio psico-sociale delle attiviste e sono la referente delle Adozioni a Distanza nel Paese».

 

 

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