È lo iodio della mamma, soprattutto nel primo trimestre di gestazione, a fare la differenza sul Quoziente Intellettivo (QI) del nascituro: anche deficit lievi di questa sostanza sembrerebbero infatti influire sullo sviluppo cognitivo e psicomotorio dei bambini. È quanto intendono comunicare a mamme, pediatri e medici di famiglia, gli specialisti riunitisi di recente a Palermo in occasione del 70° Congresso Nazionale di Pediatria. «Uno studio del 2013, apparso su The Lancet – spiega il Professor Filippo De Luca, Ordinario di Pediatria – ha misurato la concentrazione urinaria di iodio in oltre mille future mamme nei primi tre mesi di gravidanza, valutando poi alcuni parametri intellettivi dei loro bimbi a 8 anni». Ne è emerso che i figli delle mamme che avevano una carenza iodica, lieve o moderata, in questo particolare periodo di gestazione avevano probabilità maggiori di punteggio basso del QI per le capacità inerenti a linguaggio, lettura e comprensione dei testi, rispetto ai coetanei di mamme con livelli di iodio normali presi in esame nello stesso periodo. Altre ricerche hanno dimostrato che questa carenza può influire anche sullo sviluppo psicomotorio dei bambini mentre due meta-analisi hanno stimato che una severa mancanza di iodio nei bambini possa essere responsabile di un QI più basso anche di circa 12-13 punti.
Dunque, in dolce attesa è più che importante integrare nella dieta questa sostanza poiché il fabbisogno della mamma è molto maggiore: la ragione sta nel fatto che in questo particolare stato, e fino al terzo mese, la tiroide della donna lavora per due, cioè anche per il feto, influenzandone la formazione e lo sviluppo del sistema nervoso centrale (neurologico e cognitivo). La raccomandazione degli specialisti alle future mamme è quella di introdurre 250 microgrammi al giorno di iodio con l’alimentazione o altro, concordandone il come e il quando con il ginecologo o con il medico referente.
Tuttavia non sembra una pratica seguita o nota a tutti i professionisti. Secondo una recente indagine dell’Istituto Superiore di Sanità, solo il 23% dei medici è a conoscenza della raccomandazione del Ministero della Salute sul sale iodato e la legge sulla iodoprofilassi, meno della metà conosce solo la raccomandazione o solo la legge e poco più del 30% non sa né dell’una né dell’altra. Risultato? «Meno del 23% dei medici – precisa De Luca – consiglia il sale iodato al posto del sale comune a tutti gli assistiti e alle gestanti in particolare».
E così sono pochi gli italiani (specie al Sud, dove la dieta è più povera e ripetitiva) arrivano a consumare i 150 microgrammi di iodio raccomandati al giorno, andando incontro ad alcune possibili e tipiche patologie da carenza: noduli tiroidei, gozzo, ipo o ipertiroidismo e, in alcuni casi, anche problemi cardiovascolari (scompensi cardiaci e tachicardia). Un rischio, dicono gli specialisti, che corrono soprattutto le donne che in età adulta hanno il 20% di possibilità di ammalarsi di disturbi tiroidei.
Il problema è che il deficit da iodio non dà sintomi e non esistono neppure esami attendibili o specifici che lo attestino. Allora non resta che giocare d’anticipo, mettendo in tavola alimenti giusti, perché più ricchi di iodio: ortaggi, pesce, crostacei e alghe. E soprattutto cucinare o insaporire le pietanze con sale iodato, che non è il sale marino integrale non raffinato, ma un comune sale da cucina che si trova in qualsiasi supermercato o negozio di alimentari, arricchito di iodio (30 microgrammi in più per grammo rispetto a quello normale). E laddove anche queste precauzioni non fossero sufficienti, l’endocrinologo o lo specialista potranno consigliare altri integratori alimentari ricchi della sostanza. Per non incorrere in rischi prevenibili e evitabili per mamma e bimbi.
(Francesca Morelli)