HIV, Epatite C e B: è ancora troppo il sommerso di queste malattie infettive

In occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS, che si celebra ogni anno il 1° dicembre, si torna a parlare di HIV e anche dell’importanza della presa in carico delle persone con epatite C e B, ma soprattutto dei programmi di screening per l’individuazione del sommerso che, insieme al persistere dello stigma sociale, resta una tematica ancora aperta. L’occasione è stata l’evento dal titolo “L’emersione del sommerso delle malattie infettive in Italia: modelli organizzativi a confronto”, promosso da Gilead Sciences nell’ambito del 17esimo Forum Risk Management, che si è concluso nei giorni scorsi ad Arezzo. A puntare i riflettori sul tema, la professoressa Loreta Kondili dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha tracciato lo stato dell’arte di queste malattie, in particolare dell’epatite C, emerso dallo studio “Piter” promosso da esperti clinici proprio per approfondire il fenomeno.

<Abbiamo focalizzato l’attenzione in questa seconda fase dello screening dell’epatite C per capire qual è la conseguenza di un ritardo di screening nella popolazione ad oggi non indirizzata per quello gratuito, quindi nella popolazione nata tra il 1948 e il 1968. I risultati dimostrano che uno screening più veloce rispetto a una normale diagnosi di prassi, quindi un vero e proprio screening attivo in questa popolazione, diminuirebbe a 6mila casi di epatocarcinoma, a 5mila casi di cirrosi del fegato e sicuramente oltre 12mila morti, correlati all’infezione da HCV a 10 anni. Filo conduttore di malattie infettive quali Hiv, Epatite C ed epatite Delta, correlata a infezione da epatite B, è dunque proprio quello del sommerso. Un fenomeno “ancora rilevante” nel nostro Paese, dovuto a mancate diagnosi causate da una comunicazione insufficiente, ma anche a servizi di sorveglianza “non ancora pienamente omogenei ed efficienti” sul territorio.

Ad oggi ci sono 140mila persone con infezione da Hiv, un numero destinato però ad aumentare, secondo la dottoressa Barbara Suligoi, Direttore del Centro Operativo Aids del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Iss. <Questi anni del Covid hanno influito negativamente, nel senso che abbiamo visto una diminuzione del numero delle nuove diagnosi di HIV, ma immaginiamo che molte persone non si sono presentate presso i centri clinici per fare un test HIV o forse c’è stata una riduzione dell’esposizione al rischio. Riteniamo però che assisteremo a un nuovo aumento: già nel 2021 abbiamo visto un incremento dei casi. C’è un problema di sommerso, cioè di persone che magari hanno avuto un contatto a rischio, ma il test non è stato effettuato e quindi non hanno ancora scoperto di essere HIV positive. Noi questo lo verifichiamo perché ogni anno emerge dai dati che 2 persone ogni 3 scoprono di essere sieropositive e hanno un’infezione avanzata. Questo vuol dire che lo stato immunitario è già compromesso perché l’infezione è vecchia di 3 o forse 7 anni, per cui abbiamo una popolazione che ancora non sa di avere l’HIV. Ciò riflette una scarsa consapevolezza, una mancanza di percezione che l’HIV ancora è diffuso in Italia. Per questo suggeriamo da una parte l’utilizzo di mezzi di prevenzione: il preservativo è il metodo di barriera più sicuro per la prevenzione dell’HIV, in quanto noi sappiamo che praticamente tutti i casi o quasi di HIV vengono trasmessi attraverso rapporti sessuali non protetti dal preservativo. Quando non c’è possibilità di utilizzare il preservativo, secondo suggerimento, dobbiamo andare a fare un test HIV, perché questo ci garantisce, nel caso ci sia stato qualche rischio, di scoprire tempestivamente chi è sieropositivo>.

Paola Trombetta

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