Come gli italiani gestiscono il post-infarto

In occasione della Giornata Mondiale del Cuore (29 settembre), sono stati presentati i risultati di un’ampia indagine internazionale che ha coinvolto oltre 3.200 pazienti di età pari o superiore a 40 anni, di 13 paesi (Italia, Stati Uniti, Messico, Brasile, Canada, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Cina, Corea del Sud, Giappone), commissionata da Amgen. L’obiettivo? Valutare la consapevolezza degli intervistati sulla corretta gestione e rischi del post infarto, tema sul quale sembra esistere ancora molta “confusione”. Il 38% degli infartuati non ha acquisito consapevolezza della cronicità della propria condizione e della necessità di dovere gestire la problematica “a vita”. Sebbene 4 pazienti su 10 indichino la malattia cardiovascolare come la malattia più seria, provando paura: Italia (47%), Francia (39%) e Spagna (30%) o  ansia (Germania (40%) e Gran Bretagna (29%), si pongono quasi in un “atteggiamento di sfida”. Ad esempio, il 93% degli intervistati sa che il colesterolo cattivo (LDL) alto è uno dei più importanti fattori di rischio per l’infarto e il cuore; tuttavia il 28% non monitora adeguatamente questo parametro dopo un evento cardiaco. Anche in funzione dell’“incertezza” riguardo le modalità per abbassarlo: oltre 90% del campione è consapevole dell’efficacia dello stile di vita e terapie farmacologiche sul colesterolo alto, ma nel 62% non viene considerata una condizione cronica, in termini di trattamento. «I dati dell’indagine – spiega Alberto Zambon, associato di Medicina Interna, Università di Padova – evidenziano che occorre investire nell’informazione al paziente sul ruolo del colesterolo cattivo LDL, anche in funzione delle nuove linee guida 2019 della European Society of Cardiology (ESC) e dalla European Atherosclerosis Society (EAS) che hanno visto al ribasso i livelli di LDL raccomandati: <55 mg/dl per i pazienti rientranti nella definizione “a rischio molto alto” e <70 mg/dl per pazienti “a rischio alto”. Ovvero che l’ipercolesterolemia è una malattia cronica da trattare con terapie specifiche a lungo termine». Un’indicazione, quest’ultima, fondamentale soprattutto per i pazienti infartuati con un rischio elevato, pari a più del doppio rispetto a chi non ha mai avuto un evento cardiovascolare, di incorrere in episodi futuri. «Il trattamento dei fattori di rischio in questa categoria di pazienti – aggiunge Pasquale Perrone Filardi, Professore Ordinario di Cardiologia, Direttore della Scuola di specializzazione delle Malattie dell’Apparato Cardiovascolare Federico II, Università di Napoli – deve essere più aggressivo e duraturo nel tempo». Un obiettivo possibile, grazie alle innovazioni terapeutiche: «Oltre alle statine somministrate singolarmente o in associazione a inibitori dell’assorbimento (ezetimibe) – aggiunge Perrone Filardi – oggi disponiamo di farmaci biologici, anticorpi monoclonali che aggiunti alla terapia base sono efficaci nel mantenere il colesterolo sotto la soglia di rischio». Monitorare nel tempo la conoscenza dei pazienti riguardo i fattori di rischio come il colesterolo cattivo, permette di valutare la necessità di interventi più mirati a livello medico e istituzionale, promuovendo una maggiore consapevolezza.

Francesca Morelli

 

 

 

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