Blue Whale: non chiamiamolo gioco!

Il Blue Whale, il “gioco” della Balena Blu, è arrivato anche in Italia. Si contano già una decina di casi, tra cui le ultime cronache di Pescara e di Sarno, che vedono gli adolescenti cimentarsi in 50 giorni di prove umilianti fino ad arrivare all’epilogo drammatico di buttarsi giù dal palazzo più alto della città dove vivono. «Non parliamo della Balena Blu come di un gioco, così facendo inconsapevolmente lo si sostiene», avverte il professor Giuseppe Lavenia, presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo, docente a contratto di Psicologia dell’età evolutiva all’Università di Chieti, psicologo e psicoterapeuta. Di che si tratta, allora? «Di un modello manipolatorio gruppale, un sistema di stimoli e di utilizzo di tecniche tese a manipolare le vittime predestinate e rendere omertosi e amplificatori gli spettatori coetanei, i quali lodano come eroi ed eroine chi ha già raggiunto l’ultimo step, rimanendo silenziosi e passivi. La dinamica è simile a quella del bullismo che vede la maggioranza assistere senza intervenire», spiega il professor Lavenia. Nel modello Blue Whale si assiste in poco tempo a un vero e proprio stato depressivo dei ragazzi, con un graduale distacco dalla realtà, che amplifica la mancata percezione del rischio e attiva gli adolescenti a reagire a questo stato attraverso la sfida: una sorta di “automedicazione”.

Ma cosa sta succedendo ai nostri adolescenti? «La sfida, l’emulazione, il senso di onnipotenza sono temi ricorrenti per gli adolescenti. Con questi tentano di mostrarsi forti e potenti, per cercare l’autoaffermazione, soprattutto laddove c’è un problema di bassa autostima», afferma il professor Lavenia. Ma, aggiunge l’esperto, «l’adolescente è lo stesso da sempre, sono le figure genitoriali a essere cambiate. E con questo non le si sta accusando, ma solo osservandole. Dobbiamo porre più attenzione sul cosa fanno i nostri ragazzi in rete anziché sul tempo che passano connessi. Dobbiamo abbandonare il concetto di controllo e adottare quello di condivisione». Internet è uno strumento molto potente, che non va demonizzato, ma usato senza permettergli di usarci. «Come si fa con un attrezzo che richiede istruzione, noi genitori dovremmo fare con internet quando permettiamo ai ragazzi di accedervi. Essere presenti nella loro vita, ascoltare i loro bisogni, manifestare interesse e non l’intenzione di controllare sarà loro di aiuto a esprimere i loro bisogni, i loro problemi, i loro disagi. Prendiamo la buona abitudine di chiederci cosa fanno i nostri figli in rete, condividiamo con loro ciò che stanno facendo e prima di giudicare, ascoltiamoli», conclude il professor Lavenia.  P.T.

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