Tumore del seno: solo il 5% delle under 40 diventa madre dopo la malattia

Diventare madri dopo un tumore al seno? Oggi è possibile, ma solo il 5% delle pazienti under 40 riesce a realizzare questo sogno. Grazie alla ricerca scientifica e a nuovi protocolli terapeutici questa percentuale potrebbe però aumentare. Le giovani donne colpite da carcinoma mammario in stadio iniziale infatti possono interrompere per due anni la terapia ormonale adiuvante (cioè successiva all’intervento chirurgico) per cercare una gravidanza. Lo dimostra lo studio POSITIVE presentato al “San Antonio Breast Cancer Symposium”, il più importante convegno internazionale su questa neoplasia (che si è svolto lo scorso dicembre a San Antonio, Stati Uniti), di cui si è ulteriormente discusso in questi giorni al congresso “Back From San Antonio”, da poco concluso a Genova. La ricerca ha coinvolto 518 donne, di età pari o inferiore a 42 anni, con carcinoma mammario in stadio iniziale positivo per i recettori ormonali. In questi casi, la terapia endocrina viene somministrata per ridurre il rischio che la malattia si ripresenti. Lo studio ha dimostrato che il tasso di recidiva a tre anni è stato dell’8,9%, simile a quello dello studio SOFT/TEXT (9,2%) che aveva incluso donne in premenopausa sottoposte alla stessa terapia. Il 74% delle donne ha avuto almeno una gravidanza, che è terminata con successo nel 64% dei casi. Purtroppo, in Italia, il desiderio di diventare madri dopo la malattia continua a essere sottovalutato. È necessario implementare i percorsi dedicati alla prevenzione dell’infertilità nelle pazienti oncologiche in tutte le Regioni, attraverso strutture multidisciplinari, che diano vita ad una Rete di centri di Oncofertilità. L’appello viene dagli specialisti presenti al congresso del capoluogo ligure, capofila nella ricerca e definizione delle tecniche di preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche.

«In circa il 70% dei casi il carcinoma della mammella presenta i recettori ormonali positivi e richiede per un periodo di 5 anni il trattamento adiuvante con la terapia endocrina, che da un lato riduce il rischio di recidiva, dall’altro sopprime però la funzione ovarica e, quindi, la possibilità di avere un figlio», puntualizza Lucia Del Mastro, Professore Ordinario e Direttore della Clinica di Oncologia Medica dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Università di Genova. «Le sperimentazioni condotte fino ad oggi avevano dimostrato la sicurezza della gravidanza al termine delle cure anticancro. Per la prima volta, lo studio POSITIVE evidenzia che, dopo almeno un anno e mezzo, è possibile sospendere la terapia endocrina per due anni con l’obiettivo di avere un figlio, per poi riprendere il trattamento. Sono state osservate anomalie congenite nel 2% dei bambini, percentuale simile alla popolazione generale, e il 60% delle donne è riuscita pure ad allattare».

Nel 2022 in Italia sono state stimate 55.700 nuove diagnosi di carcinoma della mammella, il 5% riguarda donne under 40. «Oggi, nel nostro Paese, la bassa percentuale di giovani pazienti che riescono ad avere un figlio dopo il tumore del seno contrasta nettamente con il 50% di donne che, al momento della diagnosi, dichiara di desiderare una maternità», continua la professoressa Del Mastro. I motivi? «Prima dello studio POSITIVE, le donne con neoplasia endocrino-responsiva dovevano aspettare almeno 5 anni prima di provare ad avere una gravidanza, andando quindi incontro a un’età più matura. Questo studio dimostra che la sospensione della terapia ormonale è una procedura sicura e può aumentare la percentuale di giovani donne che riescono ad avere un figlio prima di terminare le cure. Non solo. Nel nostro Paese vanno create collaborazioni strutturate fra le oncologie e i centri di procreazione medicalmente assistita, per rispondere tempestivamente alle richieste delle pazienti. L’aspetto fondamentale delle tecniche di preservazione della fertilità è il tempismo: la crioconservazione degli ovociti deve avvenire prima dell’inizio della chemioterapia. La creazione di una Rete consente di definire percorsi dedicati e riconosciuti, oggi presenti purtroppo solo in alcuni ospedali».

L’Ospedale San Martino di Genova è un esempio virtuoso in Italia e a livello internazionale. Quasi vent’anni fa è stato tra i primi ospedali a istituire nel nostro Paese questa collaborazione fra la struttura di oncologia e il centro di procreazione medicalmente assistita, creando l’unità funzionale di oncofertilità, e tra i primi centri a implementare queste procedure di assistenza alle donne che vanno incontro alla diagnosi di cancro durante la gravidanza e a coloro che vogliono preservare la fertilità dopo il tumore. A Genova il 10% delle giovani donne riesce ad avere un figlio dopo il carcinoma della mammella, il doppio rispetto alla media nazionale.

«Proprio a Genova è stata definita una delle tre principali tecniche di preservazione della fertilità, cioè l’utilizzo di farmaci, analoghi LH-RH, per proteggere e mettere a riposo le ovaie durante la chemioterapia. In questo modo, si riduce in maniera significativa il rischio di danneggiare la funzione riproduttiva e di sviluppare una menopausa precoce», sottolinea Matteo Lambertini, Professore Associato di Oncologia Medica all’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Università di Genova. «Le altre tecniche si riferiscono alla crioconservazione, cioè al congelamento degli ovociti o del tessuto ovarico». Dall’1 gennaio 2023, il professor Lambertini è stato eletto Presidente della “Young Oncologists Committee” della Società Europea di Oncologia Medica (ESMO, European Society for Medical Oncology), che è una delle società scientifiche più importanti con i suoi quasi 30 mila soci in tutto il mondo, di cui circa il 40% sono giovani oncologi d’età inferiore a 40 anni.

Dal Congresso di San Antonio sono emerse importanti novità anche sul fronte dei trattamenti. «Sono stati presentati i dati aggiornati dello studio “monarchE” relativo a abemaciclib, che appartiene alla classe degli inibitori di cicline, in combinazione con la terapia endocrina standard per il trattamento del carcinoma mammario in fase precoce ad alto rischio, positivo al recettore ormonale, negativo per la proteina HER2 e con linfonodi positivi», spiega Saverio Cinieri, Presidente AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica). «Dopo un periodo di osservazione di 3,5 anni dalla fine del trattamento, il rischio di sviluppare una recidiva invasiva di malattia si è ridotto del 33,6%. L’aggiunta di abemaciclib in adiuvante ha anche ridotto del 34,1% il rischio di sviluppare una malattia metastatica. Sono risultati molto importanti, perché riguardano pazienti con tumore a più alto rischio di ricaduta dopo l’intervento. A San Antonio sono stati presentati anche i risultati aggiornati dello studio DESTINY-Breast3, che hanno dimostrato che trastuzumab deruxtecan, anticorpo monoclonale farmaco-coniugato, porta a un miglioramento significativo della sopravvivenza globale rispetto a T-DM1, un altro anticorpo coniugato anti HER2 e precedente standard di cura, in pazienti con carcinoma mammario HER2-positivo metastatico. Trastuzumab deruxtecan ha ridotto del 36% il rischio di morte rispetto a T-DM1. Non solo. La sopravvivenza libera da progressione è quadruplicata rispetto alla terapia di riferimento, arrivando a 28,8 mesi: un vantaggio mai osservato prima nel carcinoma mammario. Sono emersi risultati favorevoli anche con l’impiego di una nuova classe di farmaci, i cosiddetti SERD orali (degradatori selettivi del recettore degli estrogeni): camizestrant ed elacestrant», conclude il Professor Cinieri. «Si tratta di farmaci utili per le donne con carcinoma mammario ormono-sensibile in fase metastatica».

Durante il congresso “Back From San Antonio” che si è da poco concluso a Genova sono assegnati due premi a giovani oncologi under 40, prime firme di lavori scientifici pubblicati nel 2022. Quest’anno, uno dei riconoscimenti è andato a Marco Tagliamento, dell’Università di Genova (attualmente all’Istituto Gustave Roussy di Parigi), per il lavoro in corso di pubblicazione sul “Journal of Clinical Oncology” in cui ha valutato l’impatto del COVID e della vaccinazione anti-COVID in pazienti in trattamento per carcinoma mammario. L’altro premio è stato conferito a Gaia Griguolo, dell’Università di Padova, per il lavoro pubblicato su “Neuro-Oncology” sulle metastasi cerebrali da carcinoma mammario.

Paola Trombetta

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