Vaccinazione “personalizzata” per evitare rischi anche gravi

Morire a causa di un vaccino che dovrebbe invece proteggere dall’infezione Covid 19. Purtroppo è accaduto, soprattutto tra i giovani, che hanno meno probabilità di infettarsi da Sars-Cov 2 rispetto agli ultra 60 enni. Camilla Canepa, la 18 enne di Sestri Levante, è la vittima più recente, ma non è l’unica, di una scelta vaccinale che forse avrebbe dovuto essere gestita con maggior attenzione da parte di chi ha posto regole poco coerenti e per nulla personalizzate. Aprire gli Open Day vaccinali liberamente ai giovani, magari per permettere loro di trascorrere un’estate senza vincoli sanitari e poter frequentare le discoteche, non è una scelta responsabile se non tiene conto dei rischi sulla salute che magari potrebbe creare in qualche giovane. Analogamente potrebbe diventare pericoloso imporre agli ultra 60 enni, che hanno magari problemi di tipo cardiovascolare o rischio di trombosi, di fare vaccini come Astra Zeneca o Johnson & Johnson che potrebbero avere in questi soggetti effetti pro-trombotici. E non sono mancate le morti di alcuni individui più “a rischio” che forse, con un tipo di vaccino diverso avrebbero potuto essere ancora in vita!

Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova, intervenuta di recente al programma “Otto e mezzo” su La7 condotto da Lilli Gruber, ha dichiarato apertamente la sua posizione, esprimendo una grande commozione per la morte di Camilla, dopo il vaccino Astra Zeneca. «Da tempo sostengo che questo tipo di vaccino non è adatto alle giovani donne, in particolare se abbinato all’assunzione di preparati estro-progestinici come la pillola contraccettiva, che ha anch’essa un effetto pro-trombotico. Gli Open Day hanno il solo scopo di innalzare il numero di vaccinati nelle regioni, senza tener conto dei rischi a cui vanno incontro alcuni giovani più fragili». Del resto, uno studio israeliano, ha confermato anche i frequenti casi di miocardite che colpiscono più di frequente i maschi. «In questa prima fase di vaccinazione di massa effettivamente non siamo andati molto per il sottile», riconosce Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano e Direttore sanitario dell’Istituto ortopedico Galeazzi di Milano. «L’importante è stato all’inizio vaccinare un numero più alto possibile di persone per ridurre la circolazione del virus. I circa 400 casi di trombosi, di cui pochi per fortuna letali, devono però essere raffrontati con ben 44 milioni di dosi di vaccino somministrate: il 51,2% di italiani ha ricevuto la prima dose (circa 30 milioni e 300 mila) e il 23% (13 milioni e 600 mila) anche la seconda. Purtroppo ci sono ancora 3 milioni di ultra 60 enni che non hanno ancora ricevuto la prima dose ed è indispensabile fare un’azione di persuasione, attraverso anche i medici di base e gli interventi mirati sul territorio. Come ANPAS (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze), di cui sono presidente, cerchiamo di portare la vaccinazione con i nostri servizi sul territorio (Croce Verde, Bianca, Rossa) per raggiungere magari paesi sperduti in montagna o persone emarginate e anche immigrati che non hanno accesso alle strutture sanitarie. Certamente il medico di base potrebbe diventare un’importante figura di riferimento per passare da una “vaccinazione di massa” a una “vaccinazione di fino”, personalizzando la scelta del tipo di vaccino in base alle conoscenze delle patologie del proprio assistito».

Pare che proprio in questi giorni il Ministero della Salute, dopo i recenti casi di trombosi nei giovani, si sia deciso di dare la possibilità di scegliere almeno le seconde dosi, con un tipo di vaccinazione cosidetta “eterologa”, non esente comunque da critiche. Se da un lato l’AIFA (Ente italiano per l’approvazione dei farmaci) garantisce questa opportunità di scelta, proponendo vaccini a m-RNA come richiamo dopo Astra Zeneca nei soggetti under 60, l’EMA (Ente Europeo) ha ribadito al contrario di mantenere lo stesso tipo di vaccino per i richiami, in quanto il mix di vaccini non è stato ancora sufficientemente testato. La gente purtroppo, in balia di queste contraddizioni, si sente sempre più disorientata, tanto che molti decidono di fare una dose sola di vaccino, non riuscendo così ad avere una copertura vaccinale completa.

Un recente studio pubblicato su Lancet conferma comunque l’efficacia del 76% a tre mesi anche di una singola dose, sia di Astra Zeneca che di Johnson & Johnson, a anche dei vaccini a m-RNA (Pfizer e Moderna) che sembrano addirittura favorire una protezione maggiore, contro le varianti, compresa quella indiana (Delta).

«Per chi ha fatto la prima dose, soprattutto gli under 60, si potrebbe anche pensare di spostare di qualche mese la seconda dose e riservare questi vaccini per le prime dosi degli over-60 non ancora vaccinati, come del resto è avvenuto in Inghilterra, dove è stato vaccinato il 63% della popolazione con una sola dose», sostiene il professor Massimo Galli, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, intervenuto in occasione di un webinar promosso dall’Associazione giornalisti scientifici UNAMSI. «L’importante è verificare la risposta anticorpale: se rimane alta, si potrebbe anche rimandare in autunno la seconda dose. Inoltre si è visto che le persone guarite dall’infezione Sars-Cov 2 dopo 11 mesi avevano ancora una buona risposta di anticorpi. Perché dunque vaccinare subito i guariti dal Covid che sono almeno 4 milioni di persone? Non sarebbe meglio riservare queste dosi ai 3 milioni di over 60 che, per vari motivi, non hanno ancora ricevuto la prima dose e proprio per questo sono ora più esposti al contagio e all’infezione? In questo modo potremmo ridurre veramente il rischio di ospedalizzazione, limitare la carica virale e la gravità dei contagi e soprattutto abbassare drasticamente la circolazione del virus>.

di Paola Trombetta

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