Saman Abbas: una ragazza che voleva vivere libera da costrizioni

È tra le serre dell’azienda agricola in cui è cresciuta che i carabinieri continuano a cercare il corpo di Saman Abbas, la diciottenne pachistana scomparsa a Novellara (in provincia di Reggio Emilia) più di un mese fa e  che si sospetta si sia stata uccisa dalla famiglia per aver rifiutato un matrimonio combinato con un cugino in Pakistan e per punirla – stando alle parole degli inquirenti – “dall’allontanamento dai precetti dell’Islam”. Il dramma di Saman Abbas è raccontato da due  foto: del prima e del dopo. Quella con gli occhiali e il capo coperto dal velo. E poi quelle inviate appena in tempo alle amiche sui social in cui  la ragazza diventa donna, quasi irriconoscibile,  con i lunghi capelli ricci, sciolti, il viso truccato, il piercing al naso. Saman voleva integrarsi alle sue coetanee, desiderava godere delle libertà che le battaglie delle donne hanno conquistato nel nostro mondo. E a un amico aveva rivelato anche il suo sogno: diventare barista.

La recente scomparsa della giovane Saman Abbas ha riaperto una ferita che ci riporta alla memoria altri volti, quelli di Hina Saleem, assassinata dal padre nel 2006 perché la famiglia si sentiva disonorata dal suo stile di vita. E poi Sana Cheema, uccisa nel 2018, nata a Gujrat, nel Pakistan nordorientale, ma fin da piccola era venuta a vivere a Brescia, con la famiglia  e aveva la cittadinanza italiana. Per non parlare della madre di Sheen Butt, uccisa perché voleva difendere la figlia che, secondo i parenti, disonorava il nome della famiglia paterna. E tante altre giovani che non hanno mai denunciato soprusi e barbare violenze familiari.

Sulla vicenda,  dopo un  primo  assordante silenzio, si è sollevato un dibattito  ampio, con posizioni diverse e anche conflittuali. C’è chi condanna  l ‘Islam più integralista, con quella assurda e retrograda concezione della donna “citata” dal Corano; c’è chi insiste sulla dimensione culturale del contesto in cui si è consumato l’atroce fatto di cronaca (Dacia Maraini parla di delitto culturale) e chi cerca di porre la questione dentro la più generale violenza contro le donne. Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici e Islamistica presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Universita’ di Pisa, parla  di “femminicidio”  che è un fenomeno trasversale a tutte le culture e religioni nazioni e si riversa contro le donne  che scelgono di ribellarsi a chi vuole controllare le loro vite. «Perché quando si parla di violenza sulle donne, dobbiamo fare sempre una distinzione tra donne musulmane e non?», osserva Pepicelli. «La religione musulmana non c’entra affatto. Parlare di questo crimine associandolo unicamente all’origine, alla nazionalità e alla fede della famiglia sarebbe un gravissimo errore.  La verità è che il problema è trasversale e i dati dimostrano che le violenze sulle donne sono simili in tutte le comunità, sia tra gli italiani che tra le persone di altra origine e provenienza.  Questo non significa che in quei contesti non ci siano problemi, ma non si può generalizzare. Le discriminazioni nei confronti della donna nell’Islam non dipendono dal Corano, ma da come viene interpretato, e l’errata interpretazione è dovuta all’ignoranza e al maschilismo di certi uomini. Se guardiamo il Corano troviamo riferimenti espliciti sia nel testo sacro che in alcuni hadith di rifiuto di questa pratica. Lo testimonia anche la fatwa (ossia un parere religioso che non ha tuttavia effetti necessariamente vincolanti)  emessa dall’Ucoii con l’Associazione italiana degli imam, in cui si afferma che i matrimoni forzati sono pratiche inaccettabili».

«Quello di Saman Abbas è un femminicidio: ma le femministe dove sono?»,  ribatte Maryan Ismail, nata in Somalia e in Italia da 35 anni, docente di Antropologia dell’immigrazione. «C’è una ipocrisia terribile ed è questo che impedisce di fare chiarezza. Forse si ha timore di intervenire sui temi dei diritti negati alle donne islamiche, diseguaglianze e discriminazione. Temi delicati e complessi in cui si rischia sempre di “essere strumentalizzati e additati come razzisti». E questo lo sa bene anche Progetto Aisha, un’Associazione di promozione sociale nata all’interno della comunità islamica milanese, che si occupa dal 2016 di donne vittime di violenza e discriminazione, avviando riflessioni importanti sulla violenza di genere come frutto di retaggi culturali, stereotipi e pregiudizi, forti della convinzione che per favorire la rinascita delle donne maltrattate e garantire una vera emancipazione femminile e una piena inclusione nella società in cui vivono, si debba passare per un percorso di affrancamento ed autonomia a partire dall’indipendenza economica.

Se chiedete il numero dei matrimoni forzati in Italia, nessuno ve lo sa dare. Ma certamente è una pratica  ancora diffusa , ma, grazie alla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne (2011), questi abusi  vengono puniti con l’articolo 572 del codice penale (da 2 a 6 anni di carcere). In mezzo c’è il lavoro quotidiano di  una rete che, se funziona, vede in prima linea i servizi sociali e i centri antiviolenza. Se chiamate i centri antiviolenza e i servizi sociali, vi spiegheranno che sono tante le ragazze musulmane  in cerca di libertà che chiedono aiuto. «Da noi arrivano soprattutto donne giovani, ma anche donne più mature accompagnate dalle figlie: in Italia stanno aumentando le famiglie di migranti in cui convivono almeno due generazioni e le giovani generazioni crescono e si ribellano alle imposizioni delle tradizioni», racconta Cristina Carelli, coordinatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate, a Milano. «Stiamo parlando di numeri ancora piccoli, emersi dopo anni di silenzio e di omertà. Un processo lento, ma graduale, di emancipazione femminile. Credo che le campagne contro la violenza sulle donne abbia aiutato anche le musulmane. La rete antiviolenza è riuscita a penetrare nelle comunità, fino a pochi anni fa blindate. Poi il tam-tam, le discussioni e lo scambio di informazioni su gruppi di Facebook hanno contribuito al lento risveglio a cui si sta assistendo. Oggi i centri della Rete sono dotati di rafforzate competenze culturali e possono contare su un piccolo gruppo di mediatrici culturali specializzate nell’accompagnamento di donne e ragazze. La maggior parte di loro spera in una possibilità di riconciliazione. Ma è anche vero che sono aumentate le denunce. E in numerosi casi, che non possono più essere considerati limite, trovano rifugio in comunità protette». Anche Saman si era rivolta a un centro antiviolenza, era stata accolta e protetta. Però evidentemente non è bastato. A novembre 2020 la ragazza, dopo aver denunciato agli assistenti sociali violenze e coercizioni da parte del padre, era stata accolta in una comunità. Ma quando Saman compie diciotto anni, decide di tornare a casa per riprendersi i documenti. Il 22 aprile Saman entra nella stazione dei carabinieri della Stazione di Novellara e denuncia i genitori che non le danno i documenti e vogliono costringerla a un matrimonio combinato.  Poi torna a casa. Il 5 maggio – solo tredici giorni dopo la denuncia della ragazza – i carabinieri intervengono. Vanno a perquisire la casa dei genitori di Saman e non trovano né i documenti, né Saman, né i suoi genitori. Forse, si poteva fare qualcosa di più per proteggere Saman Abbas? Elena Carletti, il primo cittadino di Novellara, ha fatto sapere di aver messo a disposizione della magistratura “tutta la documentazione della vicenda Saman”. E precisa: «Nessuno poteva obbligare la ragazza a rimanere in comunità senza la sua volontà, considerando la sua maggiore età, ma i servizi sociali le hanno ripetutamente spiegato i rischi che poteva correre allontanandosi volontariamente».

«Saman sapeva che rischiava di essere uccisa, ma forse pensava che non avrebbero osato un gesto così efferato. Cosa le avranno detto per convincerla ad affidarsi allo zio?», si chiede Cristina Carelli. «Questa tragica vicenda  ci racconta come la necessità primaria sia quella di integrare le persone che vengono da noi chiedendo aiuto, non lasciandole sole nei loro piccoli mondi. Integrare in modo costruttivo universi culturali differenti non è compito semplice e scontato. Si tratta indubbiamente di una sfida importante, e non facile. Le storie delle donne che abbiamo accolto in questi anni  ci dicono che l’integrazione ha molti gradi e sfumature. Le ragazze musulmane, nate e cresciute in Italia, sono doppiamente sfidate nel loro percorso di crescita da aspettative spesso contraddittorie È come se vivessero in due mondi: vanno a scuola in Italia, ma quando tornano a casa sono in India o in Pakistan. E vivono la loro condizione di doppia appartenenza: al codice di simboli e valori della comunità nella quale vivono, e con quelli del contesto di provenienza dei genitori. Certamente motivo di ricchezza in termini culturali, ma che a volte comporta un carico di difficoltà nelle relazioni e nelle scelte quotidiane. Riescono a trovare un compromesso fra aspirazioni di emancipazione e tradizioni familiari, soprattutto se i genitori provengono da aree urbane e sono più istruiti».

Il ritorno a casa è la parte più difficile da capire in questa vicenda. «Per le ragazze è  difficile non cedere ai tentativi di riavvicinamento. Le famiglie fanno di tutto per riavere a casa le figlie: le mamme, i papà e i fratelli, colgono la loro  fragilità e la utilizzano per farle tornare. Promettono che tutto sarà diverso o fanno leva sulla minaccia che ci saranno ritorsioni. Se maggiorenni, nessuno le può fermare. Per chi  invece decide di andare avanti, per sicurezza, le ragazze sono trasferite il più lontano possibile da casa,  in comunità protette. Ulteriore problematica: le donne migranti, se regolarmente presenti sul territorio, hanno di solito un permesso di soggiorno dipendente da quello del familiare a cui si sono ricongiunte. Se non si svincola il permesso di soggiorno dalla famiglia, questo diventa inevitabilmente un ulteriore ricatto», aggiunge Cristina Carelli. «Accade di frequente che le donne migranti, regolarmente soggiornanti, non dispongano materialmente di permesso di soggiorno, né del passaporto, perché sottratti dall’uomo maltrattante. In assenza di un grave pericolo per la sua incolumità , la donna straniera non ha diritto al permesso di soggiorno, anche se vittima di violenza domestica. Ancora più difficile è la situazione delle donne migranti prive di titolo di soggiorno, per le quali, agli ostacoli comuni che tutte le donne affrontano per uscire da una situazione di violenza nelle relazioni intime e familiari, si aggiunge il rischio  di espulsione, che aggrava la loro vulnerabilità e le espone perciò ad ulteriori e più gravi forme di violenza».

di Cristina Tirinzoni

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