La mostra Le Signore dell’Arte a Palazzo Reale fino al 25 luglio

Palazzo Reale si tinge di rosa fino al 25 luglio per raccontarci le storie delle donne artiste vissute tra ‘500 e ‘600 attraverso i loro lavori, oltre 130 opere, a testimonianza di un’intensa vitalità creativa tutta al femminile. Con la riapertura dei musei è infatti di nuovo visitabile in presenza Le Signore dell’Arte, la mostra promossa dal Comune di Milano-Cultura, realizzata con il sostegno di Fondazione Bracco che ne è anche main sponsor e aderisce al palinsesto I talenti delle donne (sulla piattaforma ufficiale Ticket.it con facilità si possono prenotare i biglietti). Sotto la cura di Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié, le opere selezionate per la mostra provengono da 67 collezioni diverse a livello nazionale e da musei esteri, come il Musée des Beaux Arts di Marsiglia e il Muzeum Narodowe di Poznan (Polonia). Il percorso espositivo di Palazzo Reale si snoda in 5 sezioni, in cui sono narrati diversi percorsi di formazione e di successo professionale: Artiste del Vasari, Artiste in convento, Storie di Famiglia, Le Accademiche, Artemisia Gentileschi. Un’eccezionale “galleria” di artiste talentuose, i cui dipinti hanno spesso una forza e una qualità che sta alla pari con quella degli artisti uomini di cui abbiamo sempre sentito parlare. Una mostra bella e sorprendente per cominciare a scoprire “l’Altra metà” della storia dell’arte, troppo spesso dimenticata o rimossa anche nei libri di testo delle scuole di ogni ordine e grado che si ostinano a parlare solo di uomini.
Abbiamo intervistato la curatrice Gioia Mori, romana, storica e docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti, un’esperienza ricchissima di mostre, direzione di spazi espositivi e attività editoriali e un interesse profondo che spazia dall’arte antica al Novecento.

Come nasce il progetto della mostra?
«Una delle domande che spesso mi viene posta è: perché ci sono così poche artiste donne fra il 400 e il 600? La risposta più scontata è: “Perché a quei tempi non era pensabile che una donna potesse fare l’artista, perché quello dell’arte era un campo riservato agli uomini”. In realtà questa risposta è corretta ma non del tutto, perché di artiste donne ce ne sono state, solo che le conosciamo poco. Dimenticate dalla storia ufficiale, se non per qualche rara eccezione. Qualcosa di veramente anomalo poiché sono esistite donne pittrici, anche molto importanti. E sono riuscite a farsi largo in ambienti considerati maschili, fino ad essere acclamate e ricercate dalle grandi corti europee, diventando amministratrici della propria bravura grazie a passione, dedizione e determinazione, abilità tecnico-artistiche e relazionali. È necessario scoprirle e parlarne, per sfondare secoli di emarginazione e rimozione».

La mostra aiuta a riscrivere un importante capitolo della storia dell’arte che è stato rimosso?
«La riscoperta di queste donne – che è partita con Artemisia Gentileschi e oggi si allarga a un numero molto ampio di artiste – è una cosa molto recente, quindi penso che sì, sia proprio una nuova pagina della storia dell’arte. Ognuna, a suo modo, ha dovuto affrontare una sfida e superare un ostacolo. Non dimentichiamoci che lo studio delle arti era infatti a loro “vietato”, se non in casi eccezionali: nascere in una famiglia altolocata o nobile, in cui la pittura faceva parte del percorso formativo o far parte di un convento, in cui vigeva una tradizione pittorica di tipo devozionale o, ancora, essere figlie, mogli o sorelle di artisti, che crescevano in bottega. È il caso ad esempio della bolognese Elisabetta Sirani, scomparsa a soli 27 anni, che in un decennio produsse oltre 200 tele, superando la fama del padre. Fede Galizia a Milano, figlia del miniaturista Nunzio, fino a Palermo, dove nacque l’intraprendente Rosalia Novelli, figlia del pittore Pietro. Marietta Robusti, figlia del Tintoretto: le fonti dell’epoca narrano che stava a bottega del padre con i fratelli ma si vestiva da maschio. Lavinia Fontana, figlia e moglie di un pittore a cui pose come condizione per le nozze di continuare a dipingere rivendicando consapevolmente il suo ruolo di artista. Unica in quei tempi a ottenere una commissione per una pala d’altare, prima a stabilire un prezzo per i suoi quadri (anche se i contratti li firmava il marito, fino ad allora le donne pittrici venivano ricompensate con doni) e suo il primo nudo femminile su tela. Artemisia Gentileschi e le altre sono la dimostrazione evidente che ancora una volta le donne, se vogliono, ce la fanno a scapito di tutto e tutti».

Ci sono elementi tematici peculiari a caratterizzare il loro lavoro?
«Ci sono sicuramente tematiche che le contraddistinguono, anzitutto l’autoritratto. Era consuetudine delle pittrici, infatti, sia autoritrarsi, sia ritrarsi nei personaggi storici o mitologici rappresentati: un modo, questo, per autopromuoversi e al tempo stesso una rivendicazione della consapevolezza del loro ruolo. Le opere di queste pittrici rivelano personalità consapevoli del loro ruolo di artiste. La bolognese Elisabetta Sirani firma le sue opere “ricamando” il proprio nome sugli elementi architettonici delle sue tele. Nel 1583 la “pittora” Lavinia Fontana ricevette la prima commissione pubblica, cioè quella di una pala d’altare per la cattedrale di Imola. Ma le artiste non si fermano solo a questi generi, le pittrici sfidano l’universo dell’arte “al maschile” affrontando gli stessi soggetti degli uomini, dai temi biblici e mitologici, apportando al contempo una sensibilità femminile. La Minerva di Lavinia è raffigurata di spalle, mentre si sta cambiando, sul pavimento infatti vi è l’armatura che sta sostituendo con un elegante peplo riccamente decorato».

Emerge una specificità femminile?
«Direi di no. Di tutte, si ammira la “mano”, la fantasia delle ispirazioni, la maestrìa del disegno, l’abilità nell’uso dei colori, l’audacia di certi soggetti, il vigore e l’intensità delle forme. Ma la creatività non ha un genere, credo sia semplicemente una questione di talento. Certo diverse sono sensibilità e temperamento individuali. Un esempio? Nel 1596, quando aveva solo diciotto anni, Fede Galizia dipinse la sua Giuditta, impassibile e riccamente abbigliata, che esibisce la testa recisa di Oloferne su un vassoio. Galizia scelse di stemperare l’effetto drammatico dell’episodio biblico, concentrandosi sulla resa dell’elaborata acconciatura, dei gioielli e delle vesti. Prodigioso è però il dettaglio: quella striscia di sangue rosso sulla spada che raggela, e l’arma del delitto che viene esibita anche con un certo compiacimento di chi si sente una eroina che ha salvato il suo popolo. Al contrario la Giuditta della Gentileschi (1620) è più cruda e drammatica, è una condanna pittorica nei confronti degli abusi sulle donne da parte dei potenti».

Il dipinto che vorrebbe appendere in casa sua?
«La partita a scacchi di Sofonisba Anguissola (1555), autentico capolavoro in cui la pittrice ritrasse le tre sorelle in eleganti abiti dai drappeggi dorati, acconciature adornate da piccole corone, su cui risplendono sorrisi spensierati e contagiosi che esprimono la loro gioia affrontando il gioco intellettuale degli scacchi, con una vecchia fantesca che le sorveglia. La scena è ambientata in un giardino verdeggiante, probabilmente quello che si vedeva dal patio della loro casa di Cremona, e risulta molto viva ai nostri occhi. Racconta un momento di vita familiare e allo tempo stesso il tipo di educazione raffinata e intellettuale che ha ricevuto. Sono affascinata da Sofonisba, ha un tratto moderno molto evidente, la sua vita rappresenta un messaggio da rivolgere alle giovani donne: è riuscita a condurre una vita facendo quello che voleva fare. Autentica globetrotter, nella sua lunghissima vita avventurosa la pittrice fece vari viaggi: in Spagna, presso la corte di Filippo II dove fu dama di corte dell’infanta Isabella; in Sicilia, dove nel 1573 già quarantenne si trasferì dopo le nozze con il nobile siciliano Fabrizio Moncada. Per trattenerla in Spagna, Filippo II aveva cercato di maritarla con un nobile spagnolo, ma dovette arrendersi di fronte alla volontà di Sofonisba che preferiva invece un consorte italiano! Rimasta vedova a 47 anni e in procinto di tornare nella nativa Cremona, durante il viaggio via mare, si innamorò del capitano della nave, il 25enne Orazio Lomellini, di nobile casata genovese, che sposò in seconde nozze. Da giovane aveva impressionato Michelangelo con i suoi disegni, per poi impartire da novantenne, quasi cieca, preziosi consigli a Van Dyck che le aveva fatto visita a Palermo».

di Cristina Tirinzoni

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