HIV: le donne sono più vulnerabili. La ricerca punta sulla biologia femminile

Le donne sono tra i soggetti più vulnerabili in termini di infezione da HIV, spesso vittime inconsapevoli di partner infetti. In molti casi scoprono addirittura di essere sieropositive quando sono in gravidanza. Con tutte le conseguenze per la loro salute e quella del nascituro. Nonostante siano oltre la metà delle persone infette da HIV, non vengono rappresentate in modo soddisfacente nei trial. La donna presenta elementi specifici sotto il profilo clinico, con riferimento sia all’acquisizione dell’infezione, che alla progressione della malattia. I dati sono resi noti in occasione della Giornata Mondiale dell’HIV (1° dicembre).
«Un elemento caratterizzante della donna è il rischio di infettarsi dal partner», puntualizza Giulia Marchetti, Professore Associato di Malattie Infettive Università di Milano, presso l’Ospedale San Paolo. «L’apparato genitale femminile presenta caratteristiche specifiche che possono favorire l’infezione. La letteratura scientifica conferma questa tesi sulla base di due elementi: anzitutto, l’infiammazione a livello genitale determina un aumento delle cellule che possono essere infettate da Hiv. In secondo luogo, è dimostrato che c’è un’aumentata espressione di alcuni recettori dell’Hiv sulle cellule della mucosa genitale. Un altro aspetto su cui si è concentrata l’attenzione negli ultimi anni è il microbioma vaginale, che sembra avere effetti sulla probabilità di infettarsi. Questa condizione provoca conseguenze in tema di efficacia delle cure: non tanto per le terapie orali, ma per i vaginal-rings (anelli vaginali) con i farmaci antiretrovirali, che potrebbero essere meno efficaci, perché influenzati dalle caratteristiche specifiche del tessuto vaginale e dal microbioma».

L’evoluzione dell’AIDS al femminile. Il secondo aspetto riguardante le donne è attinente alla loro diversità nell’evoluzione della malattia. «Nelle prime fasi dell’infezione, le donne sembrerebbero avere cariche virali di HIV più basse rispetto agli uomini: un dato positivo, almeno in apparenza», aggiunge la professoressa Marchetti. «Tuttavia, in merito alla progressione, cioè alla probabilità di sviluppare Aids, nessuno studio ha dimostrato con certezza le differenze tra uomini e donne. Quindi, nonostante una carica virale più bassa in una prima fase, ciò non implica un minore sviluppo della malattia. I ricercatori hanno approfondito questo aspetto: è emerso che nelle donne, pur con una carica virale più bassa all’inizio dell’infezione, viene a crearsi una situazione di maggiore attivazione del sistema immunitario durante la fase cronica. In particolare, si osserva un aumento dei sottotipi cellulari che producono interferone, citochina in grado di avere un duplice effetto sull’infezione da HIV: un iniziale maggiore controllo della replicazione virale, seguito però da un aumento di progressione del danno immunologico. Questo è il dato più forte: nelle fasi iniziali dell’infezione, prima del trattamento antivirale, le donne hanno meno carica virale: si verifica però una maggiore produzione di interferone e di attivazione immunitaria, che può portare ad una progressione di malattia più rapida. Analogamente, un assetto infiammatorio più elevato nelle donne si associa a una maggiore probabilità di sviluppare malattie associate, come quelle di tipo cardiovascolare, aterosclerosi precoce, infarti, malattie dell’osso, osteoporosi o osteopenia, oltre a menopausa precoce, minore funzionalità ovarica, conseguenze all’apparato riproduttivo».

Attenzione anche ai pazienti fragili. Il tema delle donne è stato oggetto di tante riflessioni nell’ambito del recente Congresso ICAR 2020, occasione per focalizzare l’attenzione sulle popolazioni più fragili.  «La popolazione che ha contratto l’infezione da HIV sta invecchiando ed è molto importante considerare le diverse comorbidità al momento della valutazione della terapia antiretrovirale, non soltanto per le interazioni farmacologiche, ma anche per evitare di sommare più effetti collaterali», puntualizza la Professoressa Cristina Mussini, Ordinario di Malattie Infettive presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e co-presidente del Congresso. «Altri soggetti con infezione più complessa sono i pazienti con presentazione tardiva, oltre ad adolescenti e giovani adulti che hanno acquisito l’infezione per via materna. Inoltre, ogni aspetto legato allo stigma, risulta amplificato nella popolazione immigrata, i cui soggetti spesso sono legati a una presentazione tardiva, a una minore aderenza e al rischio di perdita al follow-up. Inoltre l’infezione da Covid-19 ha avuto un importante impatto negativo su tutta la cascata della cura dell’infezione da HIV: a partire dalla prevenzione, quindi dal test e dalla terapia profilattica, che in Italia non è ancora rimborsabile, contrariamente ad altri Paesi europei».

La rivoluzione dei farmaci “long acting”. Il virus dell’HIV rappresenta ancora una questione di salute pubblica a livello globale: sono circa 38 milioni le persone al mondo che vivono con questo virus, e ogni anno si verificano due milioni di nuove infezioni. Dopo anni di successi, in questi ultimi mesi siamo stati travolti dal Covid-19 che ha rallentato screening e trattamenti, ma la ricerca sull’HIV è andata avanti e lascia intravedere nuovi scenari per 2021. «Gli studi HPTN83 e HTPN84 sono tra i più rilevanti dell’ultimo periodo», ha sottolineato la professoressa Antonella Castagna, primario di Malattie Infettive all’Ospedale San Raffaele di Milano. «L’introduzione di un farmaco long-acting, somministrato per via intramuscolare ogni 8 settimane, ha portato a una significativa riduzione delle nuove infezioni di HIV, sia nelle donne che negli uomini: questa è una delle acquisizioni più importati degli ultimi mesi. Si sta muovendo anche la strada dei vaccini, ma resta molto complessa, per diverse ragioni tra cui la variabilità del virus e la mancanza di modelli utili nella dimostrazione dell’efficacia. Sul fronte della ricerca sono stati fatti altri passi avanti: il nostro Paese è coinvolto nella sperimentazione di nuove molecole, con meccanismi d’azione innovativi tra cui il blocco dell’ingresso nella cellula, l’inibizione della maturazione virale e quella del capside virale. Innovazione anche nelle strategie terapeutiche: a fianco della triplice terapia nella sua attuale formula standard, adesso abbiamo la possibilità di proporre ai pazienti una terapia con due farmaci: una grande conquista nella gestione a lungo termine del paziente. In questo scenario si colloca il parere positivo di EMA sull’autorizzazione dell’associazione rilpivirina+cabotegravir, 6 iniezioni intramuscolari l’anno, una rivoluzione che gestiremo nel 2021. Se riusciremo a controllare la pandemia di Covid-19, potremo offrire ai pazienti un percorso terapeutico nuovo, ponendo più attenzione alla qualità di vita. Nonostante le difficoltà nella gestione dei pazienti cronici, nella ricerca c’è grande fervore».

di Paola Trombetta

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