Eva Runggaldier e la ricerca clinica: dal vaccino anti Covid-19 alle Car-T

Oggi ricopre il prestigioso incarico di Direttore della Ricerca Clinica di un’importante azienda come Janssen Italia, divisione farmaceutica del gruppo Johnson & Johnson. Ma la passione di Eva Runggaldier per la ricerca scientifica nasce da lontano, dai tempi dell’università, quando si laurea in Chimica e Tecnologie farmaceutiche all’Università di Firenze, come lei stessa ci racconta in questa intervista.

«Ho sempre avuto passione per la Chimica, non come materia astratta, ma applicata alle Scienze umane. Ho avuto la fortuna di entrare subito nel mondo del lavoro nel settore farmaceutico, prima in una società di servizi di ricerca clinica per le aziende e dopo qualche anno sono approdata in un’altra grande azienda del settore. Mi sono occupata di ricerca e ho ricoperto diversi incarichi. Finché sono arrivata in Janssen nel 2018 e mi sono dedicata nuovamente alla ricerca clinica che è il mio interesse principale».

Oggi ricopre l’incarico di Direttore della Ricerca clinica. Quale ruolo ha il suo essere donna in questa importante professione: è un vantaggio o uno svantaggio? Quali sono le qualità fondamentali per dare il meglio in questo lavoro?
«Sono tante le qualità che bisognerebbe avere in questo lavoro. Innanzitutto, la curiosità, la capacità di pianificare e di prevenire, guardando le situazioni nell’insieme e proiettandole in avanti. Bisogna anche essere accurati, perché il nostro mondo è fortemente regolato, ma essere anche pragmatici e avere una buona dose di “problem solving” per affrontare le criticità tempestivamente. E infine è importante saper lavorare in gruppo e quindi avere capacità di dialogo, di mediazione, di negoziazione. Per quanto riguarda il mio essere donna, non ho mai percepito fosse un limite per la mia professione. Anzi è sempre stato il contrario. Nel mio team di ricerca, su un centinaio di persone siamo in maggioranza donne: la diversità di genere e non solo, è comunque un punto di forza del team e dell’azienda, un pregio che ricerchiamo e valorizziamo sempre».

Entrando nello specifico del suo lavoro, cosa si intende per “Ricerca clinica”?
«Si tratta di una fase fondamentale nello sviluppo dei farmaci. Per identificare una nuova terapia possono passare anche 10-12 anni. Questo processo parte dall’individuazione di molecole, la cosiddetta fase “discovery” e di ricerca pre-clinica: in queste fasi vengono identificate le molecole ed effettuati i primi test per comprenderne la tossicità e il meccanismo d’azione. Dopo questa fase pre-clinica, che può durare anche 6 anni, si passa alla fase di ricerca o sperimentazione clinica, contraddistinta dal fatto che i farmaci sperimentali vengono testati sull’essere umano. Questa fase può durare anche 6-7 anni in cui vengono condotte diverse sperimentazioni cliniche, suddivise in fase 1, 2, 3, 4. Nella prima vengono testate le molecole su poche persone per valutarne la sicurezza e la tollerabilità: la fase 1 viene condotta su volontari sani o su persone malate, come avviene in oncologia. La fase 2 prevede l’inclusione di un numero maggiore di persone affette dalla particolare malattia per la quale si studia l’effetto terapeutico e il dosaggio più indicato del farmaco in sviluppo. Gli studi di fase 3 servono per confermare l’efficacia e la sicurezza riscontrate negli studi di fase precedente: per fare questo è necessario includere in questi studi un numero molto alto di persone, che viene calcolato secondo precisi parametri statistici. Dopo la fase di ricerca clinica, se i risultati di sicurezza ed efficacia sono positivi, la documentazione per la richiesta di autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco viene sottoposta alla valutazione di EMA (Agenzia Europea per i medicinali). Una volta che il farmaco è autorizzato per il trattamento della malattia e in commercio, si possono avviare gli studi di fase 4, utili per allargare ulteriormente le evidenze circa l’utilizzo del farmaco nell’indicazione terapeutica approvata».

Da dove nasce l’interesse per studiare una molecola piuttosto che un’altra? L’attuale emergenza del Covid-19 rientra nei vostri programmi di ricerca imminenti?
«Come azienda siamo impegnati in sei aree terapeutiche chiave per la salute globale: onco-ematologia, immunologia, neuroscienze, malattie cardiovascolari e metaboliche, ipertensione polmonare e malattie infettive. Queste sono le nostre maggiori aree di competenza e nella scelta del filone di ricerca hanno un peso importante i bisogni di cura insoddisfatti. Teniamo conto anche delle esigenze legate a problematiche attuali, come è accaduto per il Covid-19. Già da gennaio, appena è stata resa disponibile la sequenza genomica di questo nuovo virus, ci siamo subito messi al lavoro per ricercare e sviluppare un vaccino. Abbiamo individuato un candidato vaccino, che ci è sembrato il più adatto per proseguire con le fasi di sviluppo clinico e già dalla seconda metà di luglio sarà sperimentato sull’uomo. Come azienda abbiamo già una grande esperienza nell’ambito delle malattie infettive e nello sviluppo di vaccini: proprio in questi giorni abbiamo ricevuto un parere positivo da parte dell’EMA circa il nostro vaccino preventivo per il virus Ebola. In Olanda a Leiden abbiamo un centro di ricerca d’avanguardia e un centro produttivo: stiamo conducendo il programma di ricerca del vaccino per il Covid-19 in collaborazione con un Ente americano (BARDA). Ci auguriamo che il nostro vaccino si dimostri sicuro ed efficace, e nel frattempo stiamo lavorando per incrementare la nostra capacità produttiva, nonostante il rischio d’impresa insito in tutti i progetti di ricerca e sviluppo. Riteniamo che l’utilizzo clinico non potrà avvenire prima del 2021».

In attesa del vaccino, non avete pensato anche di studiare qualche terapia contro questo nuovo virus?
«La nostra azienda produce già dei farmaci antivirali e abbiamo subito valutato se qualche molecola potesse essere indicata, senza però avere avuto esiti positivi, come abbiamo comunicato ad AIFA con grande senso di responsabilità. Ora stiamo studiando, invece, alcuni anticorpi monoclonali che potrebbero essere utilizzati contro il Covid-19. Negli Stati Uniti è attualmente in corso uno studio su un nostro anticorpo monoclonale (anti-interleuchina 6) che potrebbe avere un effetto positivo nei pazienti con infezione da Covid-19».

Oltre a questi farmaci ancora in fase preliminare, la vostra azienda ha una tradizione consolidata nello studio di terapie innovative per combattere alcune forme di tumori del sangue, come il mieloma…
«Siamo molto impegnati nell’ambito delle terapie biologiche avanzate, come ad esempio le terapie con cellule CAR-T, che sono oggi possibili grazie ai progressi avvenuti di recente nell’ambito delle biotecnologie cellulari e molecolari. Stiamo portando avanti un programma di sviluppo di una terapia CAR-T in collaborazione con Legend Biotech e stiamo lavorando in particolare sul mieloma multiplo. Si tratta di un tumore del sangue che si sviluppa in seguito alla proliferazione incontrollata delle plasmacellule. Queste sono cellule molto importanti del sistema immunitario, si trovano soprattutto nel midollo osseo, e in condizioni normali producono gli anticorpi che ci difendono dalle infezioni. Le CAR-T sono terapie avveniristiche, personalizzate, anzi direi “individualizzate”. CAR-T è un acronimo e significa “cellule T (linfociti) che esprimono un recettore ‘chimerico’ per l’antigene”. Queste cellule vengono prelevate dal sangue della persona malata e portate in un laboratorio specializzato dove sono “ingegnerizzate”: all’interno di queste cellule viene inserito un gene che consente al linfocita T di produrre sulla propria superficie cellulare dei recettori che sono in grado di riconoscere un antigene presente sulle cellule di mieloma. Le cellule CAR-T così riprogrammate vengono re-infuse nel paziente: metaforicamente, sono “addestrate” a riconoscere solo le cellule tumorali e a distruggerle, preservando quelle sane. Il programma di ricerca Janssen sulle CAR-T per il trattamento del mieloma multiplo è in corso. In particolare, lo studio di fase 1b/2 CARTITUDE-1 per la valutazione della sicurezza ed efficacia del trattamento sperimentale CAR-T, in un piccolo gruppo selezionato di pazienti con malattia avanzata, ha mostrato dati positivi. I risultati preliminari della fase 1b/2, particolarmente incoraggianti, sono stati presentati al recente Congresso mondiale ASCO. Inoltre, gli studi di fase 3 sono in programma. La nostra CAR-T sperimentale ha ottenuto nel 2019 anche la designazione “PRIME” dall’EMA: questo ci permetterà di avere un dialogo prioritario con gli enti regolatori, a vantaggio dell’iter di sviluppo clinico e approvativo».

Queste CAR-T potrebbero essere utilizzate anche per altri tipi di tumori?
«Stiamo ipotizzando l’impiego in alcuni tumori solidi: in questi casi però utilizzeremo terapie CAR-T e CAR-NK “allogeniche”, ovvero CAR-T prodotte in laboratorio, non prelevate dalla persona malata, e quindi più veloci da produrre».

La vostra ricerca clinica spazia anche in altre patologie, oltre al mieloma?
«Ci stiamo occupando anche di altre patologie presenti in altre aree terapeutiche in cui siamo impegnati, come l’oncologia solida (prostata, polmone e vescica), ematologia (leucemia mieloide acuta, i linfomi, le sindromi mielodisplastiche), immunologia (Morbo di Crohn, artrite psoriasica, colite ulcerosa), virus respiratorio sinciziale e stiamo studiando anche un vaccino per l’HIV».

Con tutti questi ambiti di studio, il ricercatore è dunque una figura molto ambita. Come azienda riuscite a dare prospettive ai giovani ricercatori, evitando la “fuga di cervelli” verso altri Paesi? Non ha mai pensato di andare a lavorare all’estero?
«Sinceramente no: mi sento molto patriottica e sono profondamente legata all’Italia. Ho avuto anche la fortuna di lavorare con un team molto affiatato e preparato di giovani volonterosi che amano il loro lavoro. Più ricerca facciamo in Italia, più possiamo contribuire a far sviluppare l’innovatività di questo Paese. Sviluppare la ricerca clinica vuol dire, da un lato dare l’opportunità di accesso a terapie innovative in una fase molto precoce, dall’altro è anche un’opportunità di ricerca per i nostri ospedali. Quello che manca è razionalizzare la burocrazia. In Europa ci sono Paesi, ad esempio la Spagna, in cui il sistema è molto più rapido del nostro per quanto riguarda i tempi di approvazione e quindi di attivazione dei protocolli di ricerca. Essere competitivi nel panorama europeo è fondamentale per dare all’Italia un posto di maggiore rilievo e contribuire come paese allo sviluppo di soluzioni terapeutiche innovative, sicure ed efficaci in tempi più brevi».

A cura di Paola Trombetta

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