Test sierologici: perché sono utili nella Fase 2

È partita oggi in Italia la cosiddetta “Fase 2” nella gestione dell’infezione da Covid-19, che in questi ultimi giorni sembra aver finalmente allentato la presa. Una fase di graduale ripresa, che richiederà, oltre alle misure di sicurezza sanitaria e distanziamento sociale, anche il monitoraggio delle persone per capire come sta evolvendo l’infezione e soprattutto quanti individui sono stati colpiti dal virus e se possono essere considerati “immuni” a contagi successivi. Dalle precedenti pandemie, provocate da altre specie di Coronavirus come la SARS e la MERS, si è visto che l’immunità durava per diversi anni. Su Covid-19 non abbiamo alcuna informazione. Per questo sarà importante effettuare i cosiddetti “test sierologici” per capire quante persone hanno sviluppato anticorpi contro il virus e per quanto tempo sono protette. L’Istituto Superiore di Sanità ha approvato un test, prodotto da Abbott, che sembra garantire un’attendibilità del 95% e verrà eseguito nei prossimi mesi, inizialmente su 150 mila persone. Da definire ancora chi verrà sottoposto al test e con quali scadenze sarà ripetuto.

Con l’aiuto di alcuni esperti, che hanno partecipato all’incontro webinar “Emergenza Covid-19: comunicazione e informazione ai tempi del coronavirus tra infodemia e fake news”, promosso da Rarelab, cerchiamo di capire in che cosa consiste questo esame e quali indicazioni potrà fornire.

«Si tratta di un test, effettuato con un prelievo di sangue venoso, in grado di evidenziare la presenza di anticorpi specifici IgG che si sviluppano in seguito all’infezione da Covid-19», risponde il professor Fabrizio Pregliasco, virologo all’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi. «In realtà, subito dopo l’infezione da Covid, tra la 7a e la 21a giornata, si sviluppano alcune immunoglobuline IgM che poi scompaiono. Più persistenti sono invece le immunoglobuline IgG, che compaiono intorno al 14° giorno e rimangono per un tempo più lungo, che però non siamo ancora in grado di quantificare. Sono proprio queste immunoglobuline che rivelano se il soggetto è stato a contatto con il virus. Se il virus è ancora presente nell’organismo, verrà confermato dal tampone positivo. Se al contrario il tampone sarà negativo, vuol dire che le difese immunitarie sono riuscite a debellarlo, ma rimane una situazione di allerta segnalata dalla presenza di questi anticorpi che, in linea teorica, dovrebbero proteggere il soggetto da nuovi contagi».

Chi ha il test sierologico positivo potrà allora stare tranquillo ed essere considerato immune?
«Purtroppo non siamo ancora in grado di garantire questa “patente d’immunità”», risponde la professoressa Antonella Viola, immunologa, docente all’Università di Padova e direttore dell’Istituto di Ricerca Pediatrica. «Non sappiamo per quanto tempo gli anticorpi IgG permangono nell’organismo e soprattutto qual è la concentrazione necessaria per avere protezione. Uno studio recente su un piccolo campione di persone dimostra che chi si ammala di Covid-19 sviluppa anticorpi e questa è un’ottima notizia. Dobbiamo ora capire se le persone che hanno avuto un decorso diverso della malattia producono diverse quantità di anticorpi».

Ci potrebbe essere una differente risposta anticorpale in riferimento al genere? E i bambini, potrebbero manifestare anche loro questa reazione immunitaria?
«Non sappiamo se ci sono differenze nei “titoli anticorpali” contro il Covid-19 tra uomini e donne, anche se le donne hanno solitamente una produzione di anticorpi maggiore rispetto agli uomini, in risposta ai vaccini. Del resto i dati che abbiamo, confermano che nelle donne la gravità dell’infezione è minore rispetto agli uomini. Queste differenze di genere nelle reazioni contro il Covid-19 potranno comunque essere rilevate nel corso del monitoraggio dei risultati di questi test sierologici, nonché dagli studi che si stanno portando avanti in tutto il mondo per capire la risposta al virus. Anche la valutazione della reazione immunitaria nei bambini potrebbe essere studiata, se i test saranno estesi pure a loro. Nel comune di Vo Euganeo, ad esempio, i test sierologici saranno effettuati, nel mese di maggio, su base volontaria, su tutta la popolazione, circa mille abitanti. In questo modo si potrà meglio valutare anche se i bambini sono stati a contatto con questo virus, se saranno protetti da ulteriori contagi e non saranno vettori di malattia».

Per poter avere tutte queste risposte, è fondamentale estendere i test a un campione numeroso di persone, si ipotizza almeno 4 milioni, dal momento che l’azienda ne ha prodotti su larga scala. Ma a chi saranno indirizzati in realtà?
«In primo luogo dovrebbero essere fatti a tutto il personale sanitario, alle persone ricoverate negli ospedali, ai pazienti dimessi, ai malati curati a domicilio, ai residenti nella case di riposo», risponde il professor Pregliasco. «Ma poi dovrebbero essere estesi anche a chi, pur curato a domicilio, ha avuto una sintomatologia da Covid, senza magari aver fatto il tampone, a chi riprende il lavoro nelle fabbriche e a campioni di popolazione sempre più ampi. E soprattutto essere ripetuti dopo diversi mesi, per capire quanto dura l’immunità», aggiunge la professoressa Viola. «In questo modo si può realmente capire se questa immunità continua nel tempo, ed essere così rassicurati sulla protezione nei confronti di una reinfezione. Per fortuna, i dati pervenuti dalla Cina confermano che sono rari i casi di una seconda infezione: si tratta forse di soggetti che non erano effettivamente guariti e avevano probabilmente un tampone “falso negativo”. Non sappiamo ancora se i cosiddetti soggetti asintomatici e “paucisintomatici” abbiano sviluppato anticorpi contro il virus: questo test ci potrà dare anche questa preziosa informazione. Per ora l’unica certezza riguarda i sintomatici che nel 100% dei casi sviluppano anticorpi, come dimostrato da un recente studio appena pubblicato su “Nature Medicine”».

Ci vorranno comunque diversi mesi per monitorare i risultati di questi test e poter garantire una “patente d’immunità” alle persone che sviluppano anticorpi. E questo ci consentirà anche di capire la percentuale di soggetti che hanno avuto contatti con il virus: a livello teorico, non dovrebbe superare il 20% della popolazione. Ma questo vuol dire allora che l’80% della popolazione è “disarmata” contro il coronavirus? Le persone con il test positivo potranno infatti essere più tranquille, perché saranno meno, o per nulla, a rischio di reinfettarsi.
«Queste considerazioni non devono però autorizzare la corsa al test “fai da te”», mette in guardia il professor Pregliasco. «Ci saranno comunque laboratori privati che proporranno test analoghi, a costi magari abbordabili: ma attenzione, non tutti hanno validazione scientifica! Anzi potrebbero addirittura dare risultati sbagliati e creare situazioni di pericolo. Per il momento è indispensabile ricorrere ai test autorizzati dall’Istituto Superiore di Sanità ed effettuati, per ora, solo nelle strutture pubbliche. Non si esclude che, in un secondo tempo, questi test validati potranno essere accessibili anche nei laboratori privati. Ma a riguardo dovremo attendere le indicazioni dell’ISS e del Ministero».

di Paola Trombetta 

“Immuni”: la App per controllare la comparsa di nuovi focolai

Rappresenta uno strumento importante per evidenziare il diffondersi di nuovi focolai di infezione e sapere se la singola persona è venuta in contatto occasionalmente con un soggetto infetto. Manterrà comunque l’assoluto anonimato e non sarà un elemento geolocalizzatore del singolo individuo. La nuova App “Immuni”, autorizzata dall’ISS, dovrebbe essere scaricabile sui cellulari a partire da metà maggio, per rendere ancora più sicura la cosidetta Fase 2.

«Partendo dal presupposto che il virus continuerà a circolare anche nei prossimi mesi e che la gente ritornerà ad uscire, lavorare e incontrare persone, questa App rappresenta un elemento in più per controllare eventuali focolai», spiega il professor Fabrizio Pregliasco. «Poiché temiamo che, con la fine dell’isolamento, si ripresenteranno nuovi casi di infezione, la App è un modo per cercare di identificarli precocemente e servirà ad aumentare la consapevolezza delle persone sulla propria salute. È comunque un sistema assolutamente anonimo, ben diverso da quello della Corea del Sud in cui si identificano le singole persone e i loro spostamenti. Nel caso della App “Immuni” si potrà solo individuare la zona dove si sono sviluppati i nuovi contagi e le persone saranno allertate tramite un messaggio in assoluto anonimato. Per queste garanzie, speriamo che siano in molti a scaricare la App sul cellulare e compilare le richieste giornalmente. Più persone avranno in dotazione questo dispositivo e migliore sarà il controllo del propagarsi dell’infezione, con conseguente intervento più tempestivo sulla salute pubblica».  P.T.

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