Robotica e biotecnologie trasformano il nostro corpo. Con quali rischi?

Intelligenza artificiale, robotica, biotecnologie: lo sviluppo tecnologico e la ricerca scientifica stanno cambiando i nostri corpi e promettono grandi cose, ma anche rischi per il futuro. È per questa ragione che nel programma dell’edizione 2019 del Tempo delle Donne, la festa-festival del Corriere della Sera e de La27esimaOra (in programma dal 13 al 15 settembre, alla Triennale di Milano) dedicata quest’anno al tema de “I Corpi”, non poteva mancare una riflessione sulle nuove tecnologie che promettono di trasformare il corpo. Con quali rischi e opportunità? Ne abbiamo parlato con Barbara Henry, tra i relatori, docente di Filosofia Politica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento di Pisa.

Cosa ci aspetta nel futuro?
«L’intelligenza artificiale sembrerebbe appartenere a un futuro dai contorni ancora incerti ma, al contrario, non è poi così distante da noi, anzi, è già “dentro” il nostro quotidiano e ci sta lentamente avvolgendo. Basti pensare agli smartphone, a internet, vere e proprie protesi tecnologiche dell’uomo, che facilitano e velocizzano processi e acquisizioni di conoscenze. I nostri corpi vengono già riparati da tecnologie sofisticatissime, dispositivi in grado di sopperire ai malfunzionamenti biologici (per esempio il pacemaker). Impianti cocleari (un orecchio bionico) che possono restituire l’udito a chi l’ha perso o a chi non ha mai sentito. Esoscheletri (protesi bioniche che costituiscono una sorta di “muscolatura artificiale”) vengono utilizzati per la riabilitazione di chi ha perso l’uso delle gambe o per persone con difficoltà deambulatorie. E potrei continuare».

Una realtà che sembrava lontanissima…
«Come lontani ci sembravano, nei vicini anni Ottanta, i nostri smartphone! Per decenni i robot hanno “vissuto” in luoghi chiusi e ben delimitati, le fabbriche, dove il loro compito è essenzialmente quello di ripetere all’infinito e alla massima velocità sempre le stesse operazioni. Ora, però, si stanno diffondendo sempre di più i robot “di servizio”, destinati a vivere con noi e a condividere gli spazi. L’utilizzo dei robot è sempre più diffuso, anche in ambito medico/chirurgico. Negli ospedali e nelle case di riposo, mi riferisco soprattutto a paesi tecnologicamente molto avanzati come il Giappone, ci sono robot che si prendono cura degli anziani e dei pazienti: ricordando all’assistito di bere, ad esempio, o di prendere le medicine, li invita a fare passeggiate e monitora i loro parametri biometrici. Quel che è certo è che ci attende un mondo in cui, menti umane e menti artificiali, comunicheranno; umani potenziati e cyborg costruiti a immagine e somiglianza popoleranno le nostre città. Secondo uno studio pubblicato da Ian Pearson, futurologo e consulente di molte delle maggiori multinazionali planetarie, il numero di robot/androidi aumenterà nei prossimi 30 anni dagli attuali 57 milioni a 9,4 miliardi, superando così il numero degli umani».

Con quali conseguenze?
«L’intelligenza artificiale non è né buona né cattiva: dipende da come viene utilizzata e per quali scopi. Ovviamente la robotica può offrire una grande speranza per migliorare la vita e penso che questo sia positivo. Ma la scienza da sola non può risolvere o chiarire tutta la complessità dell’esistenza umana. E non possiamo focalizzare questa discussione solo sulla produttività o sull’efficienza: occorre invece guardare alla robotica in una prospettiva più ampia. Interrogarci cioè sul suo impatto sulla società, sulla vita individuale e familiare, sull’ambiente, sulle implicazioni etiche e antropologiche, e molto altro. Tra vent’anni potrebbe esserci un umanoide “amico” in ogni casa per assistere i nonni, portare i figli a scuola e prepararci il caffè. Siamo pronti a ospitare i robot nelle nostre case? È un’ipotesi che ci fa paura? Qualunque risposta diamo alla domanda di fondo, perché costruire robot? Quale società vogliamo costruire progettando i robot? Quali valori cerchiamo di rafforzare o di indebolire?».

Come affrontare allora la sfida che ci pone l’intelligenza artificiale?
«Occorre guardare tanto ai rischi quanto alle opportunità, in un’ottica che le trascenda al fine di evitare confusioni, falsi ottimismi o catastrofismi (robot killer che si aggirano per le nostre città sparando a chiunque) e precisando, in modo equilibrato e critico, quali sono le linee di riflessione che delineano l’orizzonte di governance delle nuove tecnologie. Prima che la possibile invasione di robot prenda realmente piede. Detto in altro modo: possiamo produrre e disegnare i migliori, più efficienti e produttivi robot, ma i filosofi/e, i teologi/e psicologi/e sociologi/e esperti/e legali hanno il diritto di entrare nel dialogo per esprimere il proprio disaccordo su alcuni punti ed enfatizzarne altri. È altresì importante che il dibattito sul tema continui e che la società venga maggiormente informata riguardo alle possibilità, ai modi e ai rischi. Non c’è dubbio che il modo per migliorare l’essere umano sta diventando sempre più sofisticato, nel tentativo di creare un mondo migliore, più efficiente attraverso la tecnologia, ma c’è il rischio di andare eccessivamente oltre».

Può fare un esempio?
«In molti casi questi approcci tecnologici o medici sono stati inventati per aiutare feriti, malati o anziani, ma poi vengono usati da gente sana o da giovani per migliorare il proprio stile di vita e le prestazioni. E questo è solo l’inizio, dicono gli esperti. Ci stiamo avvicinando al momento in cui, per esempio, in certi sport su pista come lo sprint di 100 metri, gli atleti che corrono con protesi in fibra di carbonio saranno in grado di superare quelli che corrono con le gambe naturali. La domanda è: quando la tecnologia raggiunge un certo livello, sarà etico permettere ai chirurghi di sostituire gli arti naturali di un uomo, con delle lame in fibra di carbonio, per poter vincere una medaglia d’oro? Nell’epoca dei robot si avverte l’urgenza di inventare nuovi criteri, etici e giuridici. E ancora. Si ipotizza che tra non più di vent’anni le macchine saranno in grado di sviluppare un’intelligenza superiore a quella degli esseri umani. E potranno comunicare fra loro e scambiarsi informazioni, senza che gli esseri umani se ne accorgano. Macchine che potrebbero decidere al nostro posto. Una prospettiva che porta con sé quesiti ineludibili. Saranno sempre da considerarsi oggetti o qualcosa d’altro?».

Passo dopo passo l’uomo sposta i propri confini verso mete più grandiose, allontanandosi al contempo anche da se stesso. Dall’altra robot capaci di apprendere, adattarsi e instaurare legami emotivi con gli essere umani sfidano la concezione stessa di “umanità”. Possiamo provare a dire in cosa consista l’umanità?
«Una prima risposta, la più generale, direi che la capacità di simbolizzazione sia la risorsa che differenzia l’uomo dall’animale, ovvero la capacità di trasformare l’esperienza vissuta in simboli e di usarli nella vita quotidiana, traducendoli in parole. Attività cognitive che presuppongono la consapevolezza e sono intrecciate con le emozioni, con le azioni e quindi con il libero arbitrio e la responsabilità. L’uomo è l’unico essere vivente in grado di rendere conto delle proprie azioni e farsi carico delle loro conseguenze sulla vita degli altri. Le macchine non possono emozionarsi, essere empatiche e creative».

L’umanizzazione dei robot è la frontiera verso cui guardano alcuni dei più importanti progetti internazionali nel campo della robotica…
«Oltre a un viso espressivo, nei laboratori di ricerca stanno lavorando anche su tessuti morbidi simili alla pelle umana, sull’articolazione fluida della faccia e sulle espressioni facciali nella convinzione che più umano è l’aspetto del robot, più facile sarà per l’uomo accettare la sua compagnia e garantire un’interazione naturale. Ma abbiamo davvero bisogno della forma umana, per questi compiti?».

Nel febbraio 2017 il Parlamento Europeo ha emanato le proprie linee guida per regolare il fenomeno della robotica, esprimendo il timore che possa disumanizzare il mondo…
«Penso che la redazione di un documento ufficiale che ponga in luce queste tematiche sia un fatto importante e soprattutto che evidenzi come i tempi stiano cambiando… e anche velocemente. La Commissione parlamentare ha chiesto che venga istituita un’Agenzia europea che possa seguire questi temi, prima che si “superino frontiere inimmaginabili”. Così che i robot “siano e restino al servizio degli uomini”. E si discute, pur se in via ipotetica e forse paradossale, della possibilità di attribuire una “personalità elettronica” ai robot che prendono decisioni in maniera autonoma. Anche il problema della responsabilità richiede di venire riformulato radicalmente. Chi è responsabile per i danni prodotti dai robot, se nel loro andare in giro dovessero ferire delle persone o danneggiare delle proprietà?».

Molto spesso in questo dibattito si innesta il tema del transumanesimo che preconizza una nuova specie umana fusa con la tecnologia.
«Il transumanesimo è un movimento basato sulla convinzione che potremmo e dovremmo usare la tecnologia per allontanare i limiti della condizione umana e per potenziare le performance mentali più di quanto l’abbiano modellato milioni di anni di evoluzione. I transumanisti credono in un futuro in cui gli umani si libereranno dalla schiavitù dei propri corpi. E raggiungeranno l’immortalità, scansionando il proprio cervello e caricando i dati nelle macchine».

Cosa ne pensa del sogno transumanista di smaterializzare l’essere umano?
«Non corro certo il rischio di convertirmi al transumanesimo. Ma scoperchia anche un problema della cultura occidentale: quello di non saper accettare la morte, l’incapacità di venire a patti con i nostri limiti. Come filosofa rilancio la domanda: nei prossimi anni la scienza si dedicherà a sconfiggere definitivamente la morte: è un obiettivo che ci piace?».

Quello transumanista è un movimento prevalentemente maschile, ci sono pochissime donne…
«Sì, è una cosa che mi ha colpito fin da subito. Penso che c’entri qualcosa la fiducia esagerata nella razionalità. Forse c’è qualcosa di prettamente maschile nell’illusione di poter estrarre le intelligenze dai corpi; le donne sembrano infatti meno inclini all’idea che mente e corpo possano essere separati».

Da anni il cinema ci ha abituati a computer, cyborg, intelligenze artificiali che interagiscono con l’uomo. Quale film ci consiglia di vedere per avere stimoli di riflessione?
«Mi è piaciuto Transcendence: Johnny Deep indossa bene le vesti (materiali, poi virtuali) del dottor Will Caster, geniale ricercatore che lavora alla creazione di un computer che mette insieme tutti i dati del sapere collettivo universale, con una sorta di sensibilità emotiva per aiutare l’umanità in ogni campo di ricerca e di progresso. L’uomo viene ferito a morte da un gruppo di estremisti che si oppongono alla sua ricerca. Evelyn, la moglie del ricercatore, anche lei studiosa, tenterà di caricare su un computer il cervello dell’uomo in modo tale da farlo rivivere. Una trama che fonde scienza estrema, alla poesia dei sentimenti. Portando a riflettere non solo sul necessario, e forse invalicabile, confine tra scienza e onnipotenza, ma anche ponendo allo spettatore questioni quanto mai suggestive. L’anima umana può essere vista come una complessa forma d’intelligenza artificiale racchiusa in un chip? Ma il vero fascino del film (ovviamente non dirò l’epilogo) è l’intenzione di rifiutare la consueta opposizione tra “buoni e cattivi”. Un film che mette in contrasto l’uomo e la macchina, ma anche che ci mostra come l’uomo e la macchina possano coesistere e anche migliorarsi a vicenda».

di Cristina Tirinzoni

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