Sole, sabbia, mare e cibi causano l’orticaria, ma qualcosa si può fare

Si prepara un’estate “pruriginosa” per almeno 600 milioni di italiani. A soffrire di orticaria, che ha una prevalenza doppia nelle donne, è soprattutto la fascia d’età tra i 20 e 40 anni, in cui il bell’apparire e la qualità della vita socio-relazionale, privata e professionale, contano molto. Questi soggetti si ritrovano invece “contaminati” dalla comparsa di ponfi improvvisi, rossi o bianchi e di diverse dimensioni, spesso associati a gonfiori (angioedemi) locali, che fanno grattare fino a “togliersi la pelle”, e che scompaiono di norma nell’arco di 24 ore, con il possibile protrarsi in alcuni casi per oltre 6 settimane. Colpa (anche) dei molteplici fattori che in estate irritano una pelle già sensibile o comunque predisposta all’orticaria, sebbene una vera causa allergica scatenante non sia stata ancora identificata.

«La stagione calda è un momento critico per la pelle – spiega Gianenrico Senna,Presidente eletto della Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC), in occasione del XXXII Congresso Nazionale (Milano, 27-29 giugno):– i raggi solari e l’acqua di mare la irritano, i granelli di sabbia che vi si depositano la graffiano ulteriormente. Mentre le alte temperature aumentano da un lato la sudorazione e il prurito, dall’altro incrementano la vasodilatazione periferica, con un peggioramento dei sintomi cutanei. L’orticaria è però una fastidiosa esperienza che sperimentano 5 milioni di italiani almeno una volta nella vita, con episodi acuti più probabili in estate».

Dunque, la soluzione è accettarne l’arrivo senza batter ciglio e subire l’irritante prurito che innervosisce pure le vacanze?

Alcune misure contenitive, innanzitutto pratiche, si possono adottare al rientro dalla giornata al mare, a tavola o durante le grigliate sulla spiaggia: «Docce fresche con acqua dolce subito dopo i bagni in mare, ma anche ripararsi con cappelli e magliette quando il sole è particolarmente intenso aiutano a ridurre i sintomi. Un’attenta selezione va posta alla dieta, evitando cibi che stimolano il prurito, facendo attenzione anche all’insorgenza di un eventuale gonfiore delle muscose, soprattutto delle vie respiratorie, mettendole a rischio di edema della glottide, o più in generale alimenti che contengono additivi e coloranti, a cui una parte di popolazione è sensibile e quelli che liberano istamina. Tra questi: formaggi stagionati e fermentati, albume d’uovo, cacao e cioccolato, pesce fresco conservato come tonno, sardine, acciughe, aringhe e salmone. Meglio evitare o limitare quanto più possibile anche il consumo di crostacei e frutti di mare, pesche e fragole, la cui responsabilità nel provocare prurito è comunque dose-dipendente, o anche a bicchieri di vino bianco ghiacciato che possono avere un’azione stimolante per l’orticaria a causa del contenuto in solfiti».

Tuttavia il punto cruciale resta la diagnosi, ovvero la determinazione della possibile causa dell’orticaria – farmaci,prevalentemente antinfiammatori non steroidei che possono aggravare la sintomatologia nel 20-30% dei casi,sole, alimenti, fattori stressogeni – e la terapia. «L’orticaria spontanea – aggiunge Oliviero Rossi, Allergologo e Immunologo presso la SOD di Immunoallergologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze – è aggravata dal fatto che tra i 600 milioni di persone che ne soffrono, circa il 30% non risponde agli antistaminici, il primo approccio nella gestione del prurito, costringendo così a un aumento dei dosaggi, fino al passaggio a terapie più aggressive come antileucotrieni, immunosoppressori (in casi selezionati) e cortisonici, questi ultimi più largamente utilizzati, in cicli di una settimana, associati però a pesanti effetti collaterali se l’assunzione si protrae nel tempo, tra cui un aumento del rischio di osteoporosi e di fratture e un maggior pericolo di diabete e ipertensione».

Ma la storia clinica per circa 5 mila/10 mila pazienti che continuano ad avere sintomi anche in terapia standard, potrebbe cambiare grazie a un farmaco biologico: «Si chiama omalizumab – precisa Rossi – e si somministra in iniezione sottocute una volta al mese: ha rapidità d’azione senza particolari effetti collaterali, con possibilità di proseguire la terapia in continuità per sei mesi, a cui segue una sospensione. Se l’orticaria ricompare al termine del primo ciclo (50% di pazienti potrebbero presentare una riacutizzazione dei sintomi), dopo due mesi è possibile ripetere un ciclo di cinque iniezioni fino a un massimo di undici». Arco di tempo oltre il quale il trattamento non viene più rimborsato dal Sistema Sanitario Nazionale, costringendo i pazienti, soprattutto con forme gravi, a ritornare ai vecchi trattamenti con scarso controllo dei sintomi e i disagi che ne conseguono: esborso di circa 500 euro al mese da parte del paziente (non sostenibile in molti casi), assenteismo dal lavoro, vita privata e pubblica sensibilmente ridotta. Erogare a tutti i pazienti omalizumab, approvato per l’orticaria cronica, costerebbe da 15 milioni a un massimo di 25 milioni di euro contro gli attuali 40 milioni di euro l’anno, tra eventi avversi da cortisonici e varie situazioni associate a una terapia inefficace.

«Icasi che richiedono una cura prolungata, superiore agli 11 mesi non sono pochi– commenta Mario Di Gioacchino, Vicepresidente SIAAIC e direttore dell’UO di Allergologia Policlinico Universitario di Chieti. Anche a seguito delle richieste dei malati, AIFA si è detta disponibile a valutare la possibilità di rimborsare questo anticorpo monoclonale per oltre 12 mesi in casi specifici. SIAAIC aderisce all’appello dei pazienti affinché possano avere la possibilità di curarsi al meglio, a vantaggio anche di una sensibile riduzione dei costi diretti e indiretti della patologia, attualmente molto alti. Oggi meno della metà dei pazienti candidabili al biologico riceve la cura: obiettivo è riuscire a estenderla a chiunque possa trarne giovamento, senza costringere i malati a pagarla in proprio o senza disuguaglianze di accesso alla terapia».

di Francesca Morelli

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