Diamo un calcio agli stereotipi nello sport

Una partenza con il botto! Domenica 9 giugno, allo Stade du Hainaut a Valenciennes, la nazionale di calcio femminile ha esordito ai Mondiali che si tengono in terra francese fino al 7 luglio, battendo l’Autralia 2-1. Per continuare a sognare con la Azzurre, in attesa del prossimo impegno venerdì a Reims contro la Giamaica, abbiamo parlato di donne e sport con Luisa Rizzitelli, presidentessa di Assist (Associazione Nazionale Atlete) e pallavolista per 14 anni, che dal 2000 si occupa dei diritti delle atlete italiane.

Anzitutto, un commento sul risultato della partita.
«Un risultato incredibile, memorabile. Azzurre super, all’esordio con i due gol di una strepitosa Barbara Bonasea. Ci voleva una donna – Milena Bartolini, ex calciatrice, commissaria tecnica che dal 2017 ha sostituito Antonio Cabrini – per riportare la nazionale ai mondiali dopo 20 anni. E questa vittoria segna sicuramente un momento di crescita. Barbara oggi è una campionessa vestita di azzurro, quando ha incominciato a tirare i primi calci al pallone nei campetti a Bricherasio (in provincia di Torino – Ndr), il paese dove è nata, era l’unica bambina e anche piuttosto esile, e voleva scappare. Anche da noi deve diventare norma che una bambina, se lo desidera, giochi a pallone, senza essere accolte da risolini. La palla non ha sesso».

Qual è il principale problema per le sportive qui in Italia?
«Anzitutto un’inaccettabile sotto-considerazione: meno soldi, meno visibilità, scarsissima rappresentanza di donne nelle posizioni dirigenziali, sia delle istituzioni sportive che nei grandi club. Le donne dello sport continuano a venire pagate meno, sono poco rappresentate ai vertici degli organismi sportivi riconosciuti dal Coni (i presidenti donna sono una su 45), raccontate poco sui media e inseguite dai soliti stereotipi e pregiudizi. Insultate da “tifosi”, da giovani sportivi e dai loro genitori: l’ultimo caso è quello dell’arbitra, insultata dai familiari dei giocatori e dal gesto sessista di un calciatore quattordicenne, che si è calato i calzoncini in campo. No, fra discriminazioni e pregiudizi non siamo affatto messi bene: nonostante qualche passo in avanti sia stato fatto, in Italia la parità di diritti nello sport è ancora lontana. Soprattutto rispetto agli standard europei. Un dato preoccupante».

Eppure atlete e campionesse si distinguono sempre più e sempre meglio a livello nazionale e internazionale…
«Per la legge italiana le nostre sportive sono tutte “dilettanti”. Per l’assurdità di una vecchia norma, la 91 del 1981 che ha riservato lo status di professionisti solo agli atleti maschi. Ciò significa che in Italia nessuna donna, né Sofia Goggi, né Federica Pellegrini e, come loro, tutte le sportive a livello agonistico, merita lo status di professionista. Non è uno scherzo: non fa sorridere. Fa rabbia. Un paradosso italiano che racconta una delle molte facce di una discriminazione difficile da sradicare».

Che conseguenze ha questa discriminazione legislativa?
«Essere dilettanti vuol dire non avere contratti, maternità, pensione, tfr, nessuna delle tutele basilari che dovrebbe invece ricevere chi fa dello sport il proprio lavoro. A parità di dedizione e impegno, per le atlete dilettanti non è previsto il pagamento dei contributi pensionistici, né tantomeno esiste tutela sanitaria. Questo implica che, in casi di infortuni (non proprio una rarità nello sport), visite, cure e riabilitazione sono tutte a loro carico. Nella stragrande maggioranza dei casi un contratto “da dilettante” non prevede un vero e proprio stipendio, semmai un rimborso spese. Oltre al danno la beffa, insomma, perché le atlete italiane passano lo stesso tempo ad allenarsi dei colleghi maschi. Hanno le stesse ambizioni, compiono i medesimi sacrifici, soffrono per le sconfitte esattamente come loro; ma, sempre come dilettanti. In questa situazione, rischiano di rinunciare allo sport. Le più fortunate riescono a entrare in un corpo militare, che in cambio di prestigio e visibilità garantisce loro strutture e uno stipendio. Le atlete non possono più aspettare: è ora che le donne abbiano contratti, tfr, tredicesima. Tutto ciò che viene riconosciuto in Europa a chi vive di sport. Da 20 anni chiediamo una nuova legge quadro, per eliminare questa assurda discriminazione. Senza una parificazione, almeno contrattuale, fra uomini e donne, professionisti e dilettanti, sarà difficile fare passi avanti».

Qualche passo avanti, però, è stato fatto.
«Una piccola toppa al problema è stata messa attorno a una situazione vergognosa, perché attualmente le atlete, quando aspettano un bambino, non hanno diritto a nulla. È stato istituito un Fondo per la maternità grazie al lavoro di Commissione atleti e ministero di Economia e Finanze, che prevede un assegno di maternità per le atlete madri. Anche la norma del 30 per cento di quote rose è un passo avanti, e farà vedere i suoi effetti con la tornata di elezioni federali del 2021 quando le 44 Federazioni del Coni andranno a elezioni: almeno un terzo dei consiglieri federali dovrà essere donna. Anche il tavolo tecnico che si è costituito presso il Ministero del Lavoro rappresenta un punto di partenza importante per una norma in materia di rapporto di lavoro sportivo che è molto attesa e che trova il sostegno delle 19 sigle, tra rappresentanti di categoria, organizzazioni sindacali e federazioni».

Una disciplina che forse risente maggiormente di limiti e pregiudizi è il calcio, uno dei templi più inviolabili del maschilismo italiano.
«Non c’è dubbio. Ma la miopia sulla potenzialità del calcio femminile in Italia non ha scuse. All’estero il calcio femminile è ormai da tempo una certezza, in Italia è ancora una realtà tutta da costruire: solo 22.564 donne contro 1.087.244 uomini (dati Figc 2016). Però dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante crescita: +5% annuo, contro il crescente disamore del dilettantismo maschile, che negli ultimi 6 anni ha perso circa il 17».

Come si superano le discriminazioni che penalizzano le donne?
«Deve cambiare la mentalità: il nostro è prima di tutto un problema culturale. C’è un gravissimo ritardo. Lo stereotipo che definisce l’uomo forte, competitivo, attivo, e la donna debole, remissiva e passiva resiste ancora oggi. Così come si pensa esistano giochi per bambine e giochi per bambini, è ancora diffuso il pensiero che ci siano sport da maschi e sport da femmine. E se una donna osa partecipare a uno sport maschile, la sua sessualità viene ancora oggi messa in discussione. “Sei maschio?”, si sentono dire spesso. Ci ricordiamo ancora la frase allucinante sulle calciatrici – “Basta dare soldi a queste quattro lesbiche” – pronunciate dal presidente Felice Belloli (poi sfiduciato dal consiglio direttivo della Lega dilettanti), davanti a una richiesta fondi. Mentre le cose sono diverse: una ragazza può giocare a pallone mantenendo tutta la sua femminilità, che ognuna esprime come vuole. Segnalo le tante ricerche che certificano una cosa: le bambine che giocano a calcio si sentono più sicure e migliorano in autostima».

Come evitare pregiudizi nel raccontare lo sport femminile?
«I riflettori si accendono soprattutto quando le sportive sono anche carine e giudicate più per l’aspetto fisico che per meriti professionali e risultati sportivi. Dal calcio alla pallacanestro, il quadro non cambia. Ci troviamo di fronte alla necessità, sempre più urgente, di cambiare questa rappresentazione. Occorre dare alle discipline sportive femminili visibilità al pari di quelle maschili in termini di spazi e, a partire dalla programmazione pubblica tv e radio, di collocazione oraria. Impegnare gli editori a coinvolgere più giornaliste e commentatrici nelle redazioni sportive. Declinare al femminile funzioni e cariche: ad esempio l’arbitra, la dirigente, la coach, l’allenatrice. Le frasi sessiste non devono trovare più sponde e vanno stigmatizzate. Continuare a parlare di banali gaffe che si possono dimenticare velocemente come se niente fosse successo e si fosse trattato solo di un momento di sbandamento o di distrazione, è un modo per sottovalutare il peso degli stereotipi. Un telecronista di calcio, nel salernitano, Sergio Vessicchio, è stato sospeso dall’Ordine dei giornalisti dopo aver usato frasi sessiste e offensive nei confronti di un guardalinee donna (“è uno schifo vederla in campo”). Fulvio Collovati è stato sospeso per due settimane dalla Rai dopo le frasi sessiste durante la puntata di domenica a “Quelli che il Calcio”. Le scuse non possono più bastare. La dignità, il rispetto, investimenti adeguati e rappresentanza femminile non possono essere un optional. Sono un diritto sacrosanto su cui alzare la voce. Abbiamo dalla nostra parte molte campionesse. Ma servono molto più coraggio e voci più forti per cambiare davvero la cultura».

di Cristina Tirinzoni

Media, donne e sport: da un’idea delle giornaliste di Giulia

È stato presentato a fine maggio a Roma, nella sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il documento “Media, Donne, Sport”, nato da un’idea di Giulia Giornaliste e Uisp (Unione Italiana Sport Per tutti), ma i patrocini e le adesioni sono stati numerosi e importanti, a dimostrazione del consenso e segnale, si spera, del mutato clima. “L’obiettivo è quello di sostenere atlete e donne del mondo dello sport nella lotta contro le discriminazioni anche attraverso una narrazione giornalistica attenta, corretta e consapevole”, ha dichiarato Marina Cosi, presidente di Giulia Giornaliste, illustrando le idee guida del nuovo manifesto. “L’informazione, anche nel settore dello sport, proprio per la sua influenza sulla società, ha un ruolo fondamentale per il superamento degli stereotipi di genere, e per una piena valorizzazione delle donne nello sport e dello sport come fattore di vita sana, per la salute e il benessere”.  Il manifesto avvia insomma una riflessione sul linguaggio usato dai media nella narrazione “ancora inadeguata e spesso stereotipata” delle donne impegnate in attività sportiva.  C. T.

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