Tumore all’ovaio: cosa si aspettano le pazienti dall’ospedale… e dopo

“In ospedale mi sono sentita una persona normale, semplicemente con un problema da risolvere”. “I medici mi hanno dato tanta fiducia”. “Il momento più difficile è stato quando sono tornata a casa: mi sono sentita abbandonata a me stessa”. Sono alcune espressioni delle donne, ricoverate per un tumore all’ovaio, protagoniste della Campagna: #lospedalechevorrei, promossa da ACTO Onlus, con il supporto incondizionato di Clovis Oncology, presentata di recente in Senato, nell’imminenza della Giornata mondiale del Tumore all’ovaio (8 maggio). Una Campagna, questa, che fa seguito a un’altra, #leparolechevorrei, di cui donnainsalute ha dato notizia il 20 dicembre: (https://www.donnainsalute.it/news/campagna-tumore-allovaio-leparolechevorrei/).

Per una donna con tumore ovarico, la scelta dell’ospedale dove farsi curare è una vera “scelta per la vita”: per questo è fondamentale preferire una struttura ben organizzata e attrezzata. ll tumore ovarico è la più grave neoplasia ginecologica: interessa 50 mila donne italiane e registra 5.200 nuove diagnosi all’anno, con una sopravvivenza a 5 anni solo del 40% negli stadi avanzati. Proprio per la sua complessità il tumore all’ovaio dovrebbe essere curato solo in ospedali attrezzati per affrontare la malattia da tutti i punti di vista (diagnostico, chirurgico, terapeutico, infermieristico e psicologico-assistenziale), capaci di rispondere a tutte le esigenze delle pazienti.

Cosa pensano le pazienti degli ospedali in cui sono state curate? Come li valutano? Cosa si aspettano dai medici? «Abbiamo lanciato su Facebook la campagna #lospedalechevorrei», spiega Nicoletta Cerana, presidente di Acto Onlus, la rete nazionale di associazioni pazienti impegnata dal 2010 nella lotta contro questa neoplasia. «Con poche e semplici domande, abbiamo indagato il vissuto delle pazienti in ospedale, durante l’intero percorso di cura, dalla diagnosi alla terapia, fino al periodo di follow up. Non è stato un sondaggio, ma piuttosto un colloquio guidato per capire come rendere “l’ospedale più ospitale”. La campagna è stata seguita da oltre 90 mila persone e 150 donne hanno compilato il questionario, fornendo valutazioni e suggerimenti». La grande maggioranza (70-80%) delle donne si è dichiarata soddisfatta delle cure ricevute e ha giudicato positivamente la propria esperienza in ospedale: “…sono stata accolta come in una grande famiglia, seguita amorevolmente da tutta l’équipe che ringrazio di cuore”, “… grande umanità, delicatezza e comprensione da parte di tutti coloro che mi hanno seguita”.

«Da queste dichiarazioni – commenta Silvia Gregory, referente di Acto Roma– si capisce che la professionalità è alta, a conferma dell’eccellenza oncologica del nostro Paese, ma emerge anche la richiesta ai sanitari di una maggiore umanità e attenzione ai bisogni psicologici. E soprattutto di una maggiore assistenza a domicilio, una volta che la paziente viene dimessa. Il 70% delle donne intervistate, infatti, si è sentita “abbandonata a se stessa”; quasi il 50% ha dichiarato di non aver ricevuto consigli su come tornare alla vita di tutti i giorni. Dalla Campagna Acto emerge però che c’è ancora da fare, soprattutto per il supporto psicologico e l’assistenza nel post-cura». “Finché ero inserita in un programma di ricerca, tutto era perfetto ma, con la recidiva, fuori dal programma sei completamente abbandonata”; “… non sempre sono stata accompagnata e seguita in modo adeguato, dopo il rientro a casa”, hanno commentato alcune partecipanti al sondaggio.

«Rimane molto da fare, soprattutto dopo le dimissioni, per quel 70% di pazienti che si sente “abbandonata a se stessa”», ribadisce la dottoressa Domenica Lorusso del Dipartimento di Ginecologia Oncologica, Fondazione Policlinico Universitario Gemelli di Roma. «Probabilmente questo potrebbe essere fatto migliorando l’assistenza a domicilio e includendo altri professionisti nel percorso di cura, una sorta di “figura ponte” che dia consigli e supporto, sia dal punto di vista medico che psicologico, quando la paziente si trova a riprendere la vita di tutti i giorni. Quando ero all’Istituto dei Tumori di Milano, ci eravamo organizzati con un numero di cellulare e una e-mail “dedicata”, a disposizione delle pazienti con tumore all’ovaio che venivano dimesse. I momenti più critici vengono vissuti infatti dopo le dimissioni: in ospedale ci si sente “protette”, da personale medico e psiconcologi che ti supportano. Quando invece la donna rientra a casa si sente sola: ad affrontare la vita di tutti i giorni, le cure, i cambiamenti dell’aspetto fisico che la malattia a volta comporta. Il momento più critico per la donna è poi l’eventualità di una recidiva. Se una donna su tre si sente sola al momento della prima diagnosi, quando scopre una recidiva le crolla il mondo addosso. E’ in questi momenti che la donna con tumore all’ovaio ha più bisogno di supporto medico, ma soprattutto psicologico. Dopo aver superato le infinite difficoltà della prima diagnosi, per la donna diventa veramente insopportabile dover ricominciare tutto. L’idea di ritornare in ospedale e affrontare di nuovo le cure crea uno scoraggiamento profondo. Forse si potrebbero creare degli ambulatori, esterni agli ospedali, per “prendere in carico” queste donne e “accompagnarle” dopo le dimissioni, aiutandole ad affrontare le difficoltà che si presentano».

di Paola Trombetta

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