Non c’è ragione di uccidere una donna: la giurisprudenza deve convincersi

Fortuna e Alessandra: due giovani donne uccise tra le mura domestiche dai compagni. Alessandra Immacolata Musarra, 23 anni,  è stata assassinata a calci e pugni dal fidanzato, Christian Ioppolo 26 anni. Non era la prima volta che la picchiava. A Napoli, Fortuna Bellisario è stata assassinata dal marito Vincenzo Lo Presto, 41 anni (forse con una gruccia appendiabiti). E’ una giornata internazionale della donna segnata ancora dalla violenza. Ma esiste anche un’altra forma di violenza sulla donne: quando i processi non fanno giustizia.  A pochi giorni dall’8 marzo, ha suscitato tante polemiche la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che, ribaltando la sentenza di primo grado, ha  dimezzato (da 30 a 16 anni) la pena di un uomo, Michele Castaldo, 57 anni reo confesso di avere strangolato Olga Matei la donna con cui aveva una relazione da poche settimane. Ne abbiamo parlato con Valentina Ruggiero, avvocato cassazionista, specializzata in diritto di famiglia, volontaria per oltre dieci anni per Telefono Rosa.

A sollevare un’ondata di proteste è stata la motivazione per cui all’assassino sono state concesse le attenuanti: perché reo confesso e per la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” in preda alla quale avrebbe agito.
«Le sentenze si rispettano, ma si possono e si devono anche criticare. Con sentenze come questa rischiano di annullarsi anni di battaglie e di conquista di diritti fondamentali per le donne. Le buone leggi non bastano se non sono applicate con il massimo rigore, ma soprattutto con la salda convinzione che non esiste alcuna ragione accettabile per il femminicidio. Infatti è proprio così: non esiste alcuna ragione per uccidere una donna. E forse anche la giurisprudenza dovrebbe farsene una ragione. I raptus omicida non esistono, continuano a ripeterlo gli psichiatri. Normalmente c’è una lunga preparazione e un’attitudine alla violenza e all’aggressività, che trova un momento culminante già precedentemente manifestato. Ci sono uomini che sono sopraffattori e prevaricatori e quindi violenti. Il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii premeditati».

Sentenze come questa certo non spingono le donne ad aver fiducia nella giustizia…
«Rientra nella discrezionalità del giudice valutare le circostanze, la “spinta” a commettere un reato, e così anche lo stato d’animo entra nel processo. Perciò so bene che i giudici si sono mossi nell’ambito della legge, ma resta che non condivido il principio di questa sentenza che reputa un’attenuante il suo stato d’animo e le sue “poco felici esperienze di vita affettiva, pregressa”. E’ un passo indietro gravissimo. Si dice, in sostanza, che una “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia e dallo stato psichico può attenuare la responsabilità di chi uccide. Se così fosse, qualunque forma di ira potrebbe diventarlo. Troppo spesso ricorrendo a giustificazioni psicopatologiche, che non hanno nessun fondamento, questi assassini si vedono rapidamente ridotte, nei diversi gradi di giudizio, le pene che erano state loro comminate, quando, invece, occorrerebbe essere severissimi, perché nella maggior parte dei casi si tratta di un vero e proprio gesto aggressivo».

Proprio per la scelta dell’imputato del rito abbreviato, la condanna all’ergastolo di Castaldo in prima grado era stata ridotta a 30 anni…
«Strumento pienamente lecito e consentito dal nostro codice, il rito abbreviato ha spesso portato a condanne decisamente irrisorie rispetto alla gravità dei delitti commessi. La Camera dei deputati ha già approvato una proposta di legge volta ad escludere il ricorso al rito abbreviato e il conseguente sconto di pena di un terzo per i delitti puniti con l’ergastolo come nel caso di femminicidio. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato. Mi auguro che il clamore di questa sentenza contribuisca ad accelerare l’iter parlamentare».

Cosa ci vuole per proteggere le donne dalle violenze del compagno?
«Chiedere aiuto è il primo passo che una donna che subisce violenza dovrebbe fare. Là dove è seguita da una rete competente e formata – centri antiviolenza, polizia giudiziaria, pm, magistratura e avvocati – le cose vanno bene. Diversamente, è tutto molto più difficile. Emerge chiaramente un problema di sottovalutazione delle violenze denunciate. Molte vittime di violenza si rivolgono all’autorità giudiziaria, ma non basta: per proteggerle ci vorrebbe anche un iter più veloce e snello per accorciare i tempi della Giustizia. Per una tutela più rapida ed efficace delle vittime. In questa direzione va proprio il Codice Rosso, il ddl che e’ in Commissione Giustizia alla Camera proposto dai ministri della Giustizia Alfonso Bonafede e della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, da anni impegnata contro femminicidi, stalkeraggi e abusi vari. Sarà pronto entro l’anno. Lo ha promesso alle donne la ministra Bongiorno».

Cosa prevede?
«Un aiuto immediato alle donne. Le denunce di abusi avranno una corsia preferenziale: andranno direttamente dal Pm, il quale dovrà ascoltare la donna che denuncia e farsi un’idea dei fatti e dei provvedimenti “protettivi o di non avvicinamento” in tempi rapidi per preservare l’incolumità delle vittime di violenza. Il termine dei tre giorni sarà perentorio. Con l’introduzione di questa norma, non c’è più la discrezionalità nel valutare l’urgenza: cioè all’atto della denuncia, vanno informati immediatamente l’autorità giudiziaria e il magistrato, entro tre giorni, dovrà contattare la donna che ha sporto denuncia per ascoltare la sua versione. Viene resa obbligatoria la formazione specifica per gli operatori di polizia, dell’arma dei carabinieri e del corpo di polizia penitenziaria».

Per il ddl Pillon, le vittime di violenza dovrebbero “mediare” con il proprio carnefice… Sta facendo molto discutere il progetto di legge presentato dal senatore leghista Pillon, che vorrebbe introdurre profonde modifiche nelle separazioni. Ci può spiegare cosa non va?
«Separarsi non è mai facile. Ma farlo con le nuove regole proposte dal ddl Pillon rischia di creare situazioni di seria difficoltà, soprattutto se il motivo della separazione è la violenza maschile. L’esperienza insegna che nei casi di violenza domestica, la separazione rappresenta un momento di particolare rischio per le donne. La violenza spesso non si interrompe quando la coppia si separa e anzi, soprattutto se ci sono minori, continua e può aggravarsi dopo la separazione. Nella proposta Pillon, la mediazione familiare diventa obbligatoria ogniqualvolta due genitori decidono di lasciarsi. Anche le vittime di violenza domestica saranno obbligate a ricorrere alla mediazione con il coniuge violento, nei casi di separazioni con figli minori. Proviamo a immaginare che una donna decida di chiudere la relazione con il marito che la maltratta da tempo, e da cui ha avuto dei bambini, lo denuncia e chiede la separazione. E immaginiamo che venga obbligata a rivederlo, in un percorso di mediazione. Quando uno dei due interlocutori è assoggettato all’altro – o vive nel terrore di essere picchiato o di perdere i figli – che significato ha la mediazione se non quello di rinforzare il maltrattante, come se ne avesse bisogno? Donne vittime di violenza dovrebbero mediare con il proprio carnefice? Assurdo. Probabilmente, il senatore leghista Pillon “dimentica” che la violenza domestica è violenza di genere, non un conflitto tra coniugi risolvibile con una mediazione».

Se il ddl non verrà modificato, mette in pericolo le donne che fuggono dal partner violento?
«Il ddl Pillon prevede che se una donna lascia la casa familiare con i suoi figli. L’altro genitore può chiedere l’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza e, senza ordine dell’autorità giudiziaria, riportarli alla loro residenza abituale. Immaginiamo cosa può succedere con le case rifugio, dove le madri portano in protezione se stesse e i propri figli e che, secondo questa normativa, cessano di essere un luogo di riparo. Può arrivare la forza pubblica e prendersi i bambini riportarli nella casa di famiglia in cui è presente il genitore violento».

Quali potrebbero essere, a suo parere, le misure per prevenire il fenomeno della violenza sessuale?
«Quella contro la violenza sulle donne è una battaglia culturale: indipendentemente da stratificazioni sociali e geografiche, permangono ampie nicchie di cultura patriarcale nel nostro Paese in cui la donna continua a essere percepita come una “pertinenza” dell’uomo. Dobbiamo partire dall’educazione e dal principio della parità di genere, e per farlo è ai bambini e agli adolescenti che dobbiamo rivolgerci prima di tutto, perché crescano con una cultura del rispetto dell’altro e instaurino relazioni sane per tutta la vita. Basta parole come raptus, amore, gelosia, passione, accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento. Scrivere in maniera corretta di violenza sulle donne si può e si deve».

di Cristina Tirinzoni

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