Come riconoscere un problema di sordità e di linguaggio nei bambini

Il medico più scrupoloso, soprattutto per il neonato e il bambino nella primissima infanzia, è la mamma: sebbene apprensiva, è tuttavia attenta a ogni modificazione del comportamento del proprio piccolo, cogliendo segnali che potrebbero esulare da contesti di normalità. «Le mamme – dichiara la dottoressa Chiara Mezzedimi, otorinolaringoiatra, audiologa e foniatra presso l’Unità di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale di Siena – sono più informate dalle sollecitazioni provenienti dai media, portali di salute e Facebook. Un atteggiamento che, se da un lato può creare falsi allarmismi, dall’altro potrebbe invece portare all’attenzione segnali che altrimenti passerebbero inosservati». Anche nel caso di ipoacusia, cioè di disturbi riguardanti la non perfetta capacità uditiva del bambino e del linguaggio: possono comparire singolarmente, riferendosi all’uno o all’altro disturbo, o in associazione. Importante è correlare eventuali problematiche di udito e di parola all’età e, dunque, allo sviluppo del bambino. «Dalla nascita e nella prima fase di crescita che va dai 0 ai 3 mesi – aggiunge la specialista – il neonato che sente bene risponde agli stimoli sonori, come reazione di allarme, agitando le mani o facendo piccoli movimenti con il corpo: un segnale che, specie se si tratta del primo figlio, potrebbe essere male interpretato dalla mamma, qualificandolo come un comportamento strano, mentre invece è espressione di salute uditiva». Tra i 4 e gli 8 mesi, il movimento reattivo si sostituisce con un movimento direzionale: un bambino con l’udito sano, si gira verso l’origine della fonte sonora. «Si tratta di un segnale molto importante che la mamma deve notare, rappresentando un possibile indicatore di una anomalia in atto o in fase di sviluppo». Il rischio che le problematiche, soprattutto uditive, sfuggano al controllo oggi si è sensibilmente abbassato grazie all’obbligo di sottoporre i neonati, su tutto il territorio nazionale, entro le 48 ore dalla nascita al test delle otoemissioni acustiche, entrato tra gli esami di screening neonatale.

«L’ipoacusia – precisa Mezzedimi – colpisce 1 neonato su 1000, un dato non indifferente, e questo test consente di capire se soprattutto i piccoli a rischio, come i neonati rimasti in terapia intensiva, i prematuri, coloro che hanno familiarità con problematiche di sordità o i figli di mamme che hanno contratto in gravidanza alcune infezioni, in particolare il citomegalovirus, spesso associato a un rischio elevato di ipoacusia, abbiano un udito sano o già con qualche anomalia». L’attenzione, soprattutto verso i bambini a rischio, è molto alta: anche nel caso in cui i test di screening siano andati bene, questi vengono sottoposti a controlli e test successivi e, se necessario, avviati ai centri di secondo livello. Non ultimo, nella primissima infanzia è da tenere sotto osservazione la lallazione: una prima forma di “linguaggio” caratterizzato da gorgheggi, che si manifesta intorno ai 6 mesi. «L’attenzione da parte della mamma alla normalità di queste tappe, unite allo screening – commenta Mezzedini – sono un ottimo punto di partenza per la prevenzione. Senza dimenticare il comportamento. I bambini di cui si ignora una possibile ipoacusia, sono di norma più aggressivi, isolati nel mondo: ecco un’ulteriore occasione per parlare con il pediatra o con uno specialista audiologo che, se evidenzia un problema di linguaggio, potrà coinvolgere, nella fase diagnostico-terapeutica, il logopedista e il neuropsichiatra infantile».

«In un secondo tempo entra in gioco la comunicazione, che prepara e accompagna il linguaggio – aggiunge Irene Vernero, logopedista presso il Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Torino – che include semplici segnali che il bambino manda a chi si prende cura di lui, dal pianto, sorrisi, vocalizzi a gesti i con cui il bambino richiede attenzione all’adulto, spesso anche solo per “far vedere” qualcosa che ha attirato la sua attenzione. Sono momenti molto importanti che fanno diventare la comunicazione intenzionale e linguistica: a 12 mesi il bambino è pronto per le prime parole, le più facili e le più frequenti. È compito dapprima del genitore valutare e capire se queste parole vanno via via precisandosi in maniera corretta e appropriata al contesto, sapendo che le tappe evolutive del linguaggio prevedono che a 12 mesi il bambino pronunci le prime parole, che a 24 mesi ne dica più di 50 e cominci a combinarle in frasi, e a 3 anni più di 1000». Non sono esclusi casi in cui i bambini possono iniziare a parlare con ritardo, intorno ai 2-3 anni; tuttavia se a 2 anni e mezzo il piccolo usa solo 10 parole e dette male, è bene pensare a una consultazione logopedica, se necessario anche audiofoniatrica, utili a valutare l’eventuale evoluzione del linguaggio con una variabilità più lenta, se non un deficit vero e proprio. «In caso di bambini che ritardano a parlare – raccomanda Vernero – è bene effettuare una sorveglianza logopedica già dai 2 anni e mezzo, con una presa in carico prima di counselling e poi diretta, e nel caso di effettive difficoltà attraverso una riabilitazione logopedica anche intensiva. Questa viene attuata presso i servizi di recupero e rieducazione funzionale, di neuropsichiatria infantile e di audiofoniatria a seconda dei territori e delle regioni italiane». Ci sono altri campanelli di allarme che occorre considerare: «E’ il caso ad esempio di bambini con una voce molto rauca – aggiunge la Vernero – in cui lo specialista chiarirà la natura del disturbo: una lesione alle corde vocali, ma più comunemente un cattivo uso della voce. Si tratta molto spesso di disturbi funzionali, completamente taciuti, invece molto frequenti fra i piccoli italiani: frequentazione di ambienti rumorosi come le classi scolastiche, l’imitazione di cattivi modelli, tra cui genitori che urlano o personaggi di cartoni animati che usano un tono di voce distorto, fanno la loro parte.

Il disturbo di voce (disfonia), se non viene trattato in età infantile, è destinato a permanere e con forte probabilità continuare anche in età adulta. Mentre le malocclusioni, le cattive abitudini come respirare a bocca aperta, mangiare solo cose morbide, tardare ad abbandonare ciuccio e biberon dopo i 2 anni e mezzo, deglutire come un bimbo più piccolo sono altri fattori che incidono sulla pronuncia del linguaggio e sulla sua buona organizzazione. Moltissimi bambini – conclude Vernero – tra i 2-3 anni hanno esitazioni nel parlare ed è compito del logopedista riconoscere l’entità del problema, avviando il bambino a una consultazione specifica o risolvendolo con esercizi mirati quello specifico comportamento verbale. Infine, se il bambino si blocca e ripete una sillaba, come è tipico della balbuzie, non è detto che ci sia da preoccuparsi, ma non bisogna rinforzare quel comportamento. Il genitore non deve fare osservazione, né deve parlare con altri adulti in presenza del bambino, per evitare che si stabilizzi un comportamento verbale che non è quello corretto. La balbuzie è invece da tenere sotto maggiore osservazione, consultando uno specialista, se compare attorno ai 4-5 anni, quando il linguaggio dovrebbe essere completamente formato e fluente». Non è semplice la corretta diagnosi con un bimbo piccolo, ma una buona informazione dei genitori ha contribuito negli ultimi anni ad abbassare l’età della diagnosi. Qualunque sia il problema, è importante intervenire tempestivamente, senza attendere l’ingresso del bambino alla scuola dell’infanzia o l’età scolare, nel rispetto anche delle indicazioni del Joint Committee Americano che raccomanda a 3 mesi la diagnosi e, nel caso di sordità, la protesizzazione entro 6 mesi e l’eventuale impianto cocleare entro 18-24 mesi.

di Francesca Morelli

 

È nata una “App” dal linguaggio interattivo universale

Fino a ieri, una app in grado di comunicare e interagire in maniera “universale” con tutti gli apparecchi acustici, non c’era. Ci hanno pensato i ricercatori di Amplifon, azienda leader mondiale nelle soluzioni e servizi per l’udito e il Centro di Ricerche e Studi (CRS) a realizzarla fondendo in un unico dispositivo innovazione, tecnologia, interattività, ma soprattutto funzionalità e necessità, per evitare che la persona una volta tornata a casa con il suo apparecchio acustico si senta sola e smarrita, isolata da mondo. Per rompere questa barriera di solitudine, non solo uditiva, è nata la App Amplifon a breve disponibile in esclusiva sul mercato, presentata agli esperti in occasione del Congresso della Società Italiana di Otorinolaringoiatria (SOI), concluso di recente a Napoli. «Si tratta di un’applicazione rivoluzionaria – ha spiegato Alberto Golinelli, Direttore dell’Area Medica e de CRS Amplifon – la prima in grado di connettere apparecchi acustici di marchi diversi e con device di alto profilo tecnologico». L’App metterà a disposizione servizi indispensabili per l’utente, come la gestione di programma – ristorante, TV, outdoor, musica – la regolazione del volume, la riduzione del rumore ambientale e la prenotazione diretta di appuntamenti con la filiale di riferimento. Inoltre offrirà anche un servizio “Companion”, una vera e propria intelligenza artificiale in grado di analizzare i dati di utilizzo delle soluzione acustica e fornire consigli per l‘ottimizzazione delle prestazioni. «Il “Companion” – conclude Golinelli – sarà disponibile per tutta la vita dell’apparecchio acustico, ma risulterà indispensabile soprattutto nei primi 100 giorni dalla scelta della soluzione. Se per esempio il sistema rivelasse uno scarso utilizzo della soluzione, consiglierebbe all’utente di indossare  gli apparecchi per più ore al giorno, così da percepirne il reale beneficio». Insomma, un vero e proprio compagno di viaggio per riconquistare un udito ottimale.  F.M.

Bimbi prematuri: maggior rischio di disturbi del linguaggio e apprendimento

Ogni anno in Italia circa 50 mila bambini, uno su dieci, nascono prematuri: di questi uno su cinque riporterà conseguenze gravi nel lungo termine, dalla sordità ai disturbi comportamentali, a paralisi cerebrale e deficit mentali, fino al 50% che potrà avere ripercussioni più lievi, ma comunque invalidanti, sul linguaggio o l’apprendimento, deficit di attenzione e iperattività, mentre l’80% potrà alimentarsi con difficoltà. Alcune conseguenze, tra cui la difficoltà di alimentazione autonoma e di comunicazione, possibili disturbi nello sviluppo neuropsicologico possono essere scongiurate con un intervento del logopedista, integrato nell’équipe della terapia intensiva e nella continuità delle cure. Una sfida particolarmente difficile per i neonati prematuri, che rende importante la figura del logopedista, è rappresentata dal passaggio dall’alimentazione parenterale a quella orale, compresi possibili ritardi nello sviluppo di masticazione, lallazione e articolazione verbale che possono evolvere in disturbi del comportamento alimentare e del linguaggio. «Un trattamento precoce di queste problematiche – dichiara la dottoressa Sara Panizzolo, logopedista presso l’Unità Operativa Complessa di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale all’Ospedale Monaldi di Napoli – significa ridurre la probabilità che le alterazioni funzionali si protraggano nel tempo, influenzando la sfera evolutiva, affettiva e anche la relazione mamma/bambino. Il logopedista dovrebbe intervenire precocemente anche in tutte le situazioni in cui ci siano patologie del complesso oro-facciale, dalla sindrome di Down alle malformazioni genetiche, dalle paralisi cerebrali alle paralisi facciali». Invece il logopedista è ancora una figura poco presente nella gestione delle patologie neonatali sia nelle terapie intensive: «Il suo ruolo è fondamentale: per questo la Federazione Logopedisti Italiani (FLI) – conclude la Presidente, Tiziana Rossetto – propone che in tutte le terapie intensive neonatali sia disponibile il supporto logopedico, da garantire poi anche dopo la dimissione dall’ospedale, per seguire questi bimbi così delicati in tutte le fasi di crescita».  F.M.

 

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