Epilessia: il muro del pregiudizio è ancora altissimo

L’epilessia è una “malattia sociale”: lo conferma l’Oms, in occasione della Giornata Mondiale di informazione e sensibilizzazione sulla malattia (12 febbraio). E’ sociale per i suoi numeri: si tratta infatti di una delle malattie neurologiche più diffuse, tanto che in Europa conta all’incirca 6 milioni di persone, di cui 500-600mila solo in Italia, pari a una persona ogni 100. È sociale, perché l’epilessia non conosce età e sesso: può colpire indistintamente tutte le fasce di popolazione, sebbene abbia un’incidenza maggiore nei bambini, fin dai primi anni di vita ed entro i 12 anni nel 70% dei casi, e negli anziani. È (anti)sociale, infine, perché esclude dalla vita di relazione, tanto in età pediatrica quanto adulta: niente gite di classe per i piccoli e i ragazzi, no a vacanze in centri estivi, divieto di fare trasferte su scuolabus o altri mezzi collettivi scolastici a causa di operatori non adeguatamente formati alla gestione della malattia, tempestiva o in emergenza.
Uno stigma di “diversità” che inizia da piccoli e ci si porta dietro anche in età adulta, fino al punto di dover nascondere l’epilessia per timore di non trovare o di perdere il lavoro, soprattutto in caso di professioni in cui si devono maneggiare apparecchi sofisticati o congegni elettronici o che implicano la guida di un mezzo. Intorno alla mala informazione sulla malattia, che fa addirittura considerare l’epilessia una patologia psichiatrica, un dato certo e positivo c’è: nel 75% dei casi è curabile. Tuttavia, se passi avanti sono stati fatti per le opportunità di cura, resta da abbattere il muro del pregiudizio, ancora altissimo anche in Italia. L’epilessia spaventa, meglio stare alla larga da chi ne soffre perché non si sa mai, perché l’attacco potrebbe arrivare in qualsiasi momento e poi chissà. Invece, nei casi migliori, tra una crisi epilettica e la successiva, possono passare anche anni, in condizioni di vita assolutamente normali: come se la malattia non esistesse, anche se c’è. E pesa soprattutto con la discriminazione, la diffidenza da parte dell’altro, tanto che se non adeguatamente “supportata”,  oltre ai risvolti clinici, potrebbe avere anche ripercussioni psico-emotive, soprattutto sulla crescita e l’autostima dei più piccoli.  Un rischio, quest’ultimo, evitabile o meglio ancora prevenibile, “formando” correttamente insegnati e operatori: «È scientificamente dimostrato – spiega il professor Federico Vigevano, direttore del dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma – che educare la scuola alla gestione dei bambini e dei ragazzi affetti da epilessia, ne favorisce l’inserimento in classe, migliora la loro qualità di vita, con ricadute positive anche sui livelli di ansia dei genitori, e riducendo anche in maniera sensibile gli accessi non necessari al pronto soccorso».

Gli ultimi dati, emersi da un incontro di formazione e sensibilizzazione dal titolo La scuola non ha paura delle crisi, promosso dallo stesso Ospedale Pediatrico, fanno rilevare che 1/3 degli istituti/scuole hanno avuto a che fare con almeno un episodio di crisi epilettica fra gli studenti, ma che, dopo la formazione, è raddoppiato il senso di sicurezza nel somministrare i farmaci ai bambini/ragazzi in preda alle convulsioni e che il 100% delle crisi (12 in totale) sono state gestite in classe e in un solo caso da operatori esperti, per la gravità della situazione che ha richiesto il ricovero. Per il 70%, infatti, l’epilessia viene controllata farmacologicamente, mentre il 30% resiste alla terapia e di queste forme solo il 10-15%  può essere curata (e con alte probabilità anche guarita) con la chirurgia, a condizione però che l’area coinvolta, la zona del cervello responsabile delle crisi, sia circoscritta e l’asportazione non causi deficit neurologici. «Agli insegnati o operatori scolastici – aggiunge Stefano Bellon, presidente della sezione veneta di AICE (Associazione Italiana Contro l’Epilessia) e medico di medicina generale a Padova – di norma è chiesto solo di saper somministrare correttamente i farmaci a scuola. In caso di crisi, l’80% sono gestibili con manovre semplici: sdraiando il bambino (o la persona) a terra, mettendola su un fianco, avendo eliminato eventuali oggetti contundenti vicini, e confortandola al contempo perché nel giro di 3-4 minuti di norma l’attacco epilettico si risolve spontaneamente». Diversamente è necessario allertare il “sistema di emergenza–urgenza”, chiamando il 118, o somministrare il farmaco. Occorre tuttavia che sul problema e gestione dell’epilessia, i care-giver o colui che è vicino alla persona con epilessia siano adeguatamente informati. Ma non siamo ancora arrivati a questo punto.

Oltre ai bambini, anche le donne sono fragili di fronte all’epilessia, soprattutto se in età fertile e desiderose di maternità. Evento che richiede un’attenta programmazione della gravidanza, così come la sospensione o modifica della terapia in corso. Sebbene lo stop del trattamento possa esporre a un aumentato rischio di crisi epilettiche, le future mamme possono stare tranquille perché gli esperti assicurano che non possono avvenire durante i mesi di gestazione. «Più attenzione va invece prestata al parto e all’allattamento che possono rappresentare due momenti critici per la maternità – conclude Bellon – dovuti al fatto che poche strutture sanitarie in Italia hanno servizi dedicati o sono altrettanto scarsi i centri di eccellenza per la chirurgia dell’epilessia, un’opzione invece valida per buona parte dei pazienti farmacoresistenti. È necessario dunque diffondere una cultura dell’epilessia, per superare il retaggio dello stigma e della discriminazione, anche fra la classe medica e in chi programma i servizi sanitari». Il messaggio che emerge dagli esperti dalla Giornata Mondiale è chiaro: servono maggiore attenzione e sensibilizzazione nei confronti dell’epilessia, una patologia neurologica fra le più importanti, ma con ancora molte lacune da colmare.

di Francesca Morelli

 

Con la chirurgia oggi si può quasi sempre guarire dalle crisi

Non tutti gli attacchi epilettici sono uguali e non tutti candidabili alla chirurgia. Lo sono quelli “focali”, in cui cioè la crisi ha inizio in una zona unica e delimitata della corteccia cerebrale, e quelli “farmaco resistenti” che non sono controllabili con l’uso di farmaci specifici. Prima della chirurgia sono però necessarie indagini sofisticate: lo studio attento dei sintomi, l’analisi neurofisiologica con l’esecuzione di un elettroencefalogramma (Eeg) o tecniche di neuroimaging, come la risonanza magnetica. Mentre nei casi più complessi, quelli in cui la sede della crisi è difficile da identificare, si ricorre alla Stereo-Eeg, una procedura che richiede l’impianto di elettrodi in profondità del cervello “guidata” da un apposito casco e da mappe di imaging in 3D che possono registrare per diversi giorni l’attività cerebrale durante lo svolgimento di normali attività quotidiane come camminare, afferrare oggetti, osservare immagini o pensare. Metodica per la quale il Centro di epilessia Claudio Munari, dell’Ospedale Niguarda di Milano, è all’avanguardia.

Se, grazie anche a questa metodica, l’epicentro della crisi viene individuato, la chirurgia è in grado di liberare dagli attacchi il 70% dei pazienti, l’80-90% se la sede del problema è lobo-temporale. In altri casi, invece, la chirurgia trasforma le crisi in farmacosensibile, dunque non risolve l’epilessia, ma la rende curabile/controllabile con i farmaci. Sono oltre 120 l’anno i pazienti operati a Niguarda per epilessia, rappresentando il 40-50% di tutti i casi trattati in Italia, di cui il 30% sono ragazzi con meno di 18 anni. «Se vi sono indicazioni alla chirurgia – conclude il dottor Giorgio Lo Russo, direttore del reparto di Chirurgia dell’Epilessia C. Munari di Niguarda – è consigliabile intervenire in età pediatrica: prima il bambino si libera dalle crisi, prima potrà completare il normale sviluppo cognitivo. Invece nel nostro paese, un po’ per pregiudizio, un po’ per scarsa informazione e mancanza di centri specializzati, si arriva all’intervento con diversi anni di ritardo». Peccato – laddove possibile – mancare un’opportunità di cura così importante e preziosa.   F. M.

 

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