«Mi hanno impedito di essere madre»

È una ricorrenza, la Festa della mamma, di gioia e serenità. Ma non per tutte. Vorremmo infatti ricordare le tante mamme che hanno perso i figli per la crudele perversione di mariti e compagni. Spesso il figlicidio è l’altra faccia del femminicidio, un modo per ferire ancora di più le donne e farle soffrire profondamente, colpendo quanto hanno di più caro e prezioso: i figli. Negli ultimi due anni in Italia sono più di 40 i bambini uccisi dai padri, come gesto estremo per ferire a morte la propria donna e appagare una sete di vendetta senza limiti. E spesso questa violenza si compie nei momenti in cui i padri hanno l’occasione di vedere il proprio figlio, magari in strutture protette. Come è accaduto ad Antonella Penati, madre di Federico, il bambino ucciso dal padre il 25 febbraio 2009 con un colpo di pistola e venti coltellate nel corso della “visita protetta” al Centro socio-sanitario di San Donato Milanese, senza che nessuno fosse in grado di intervenire.

Oggi Antonella, che ha fondato l’Associazione “Federico nel cuore”, chiede giustizia e vuole presentare ricorso alla Corte di Strasburgo, dopo la recente sentenza della Cassazione che ha assolto gli imputati (dirigente, assistente sociale ed educatore) pur non essendo intervenuti a difesa del bambino.
«Se almeno ci fosse stata una condanna, questo caso avrebbe fatto emergere situazioni analoghe, che riguardano altri bambini, e avrebbe forse fatto riflettere sulla gestione delle visite ai genitori in ambito protetto, che spesso innescano micce destinate a scoppiare», dice Antonella. «Più volte avevo supplicato di interrompere queste visite, perché Federico era terrorizzato dal padre, che mi aveva minacciato e continuava a perseguitarmi. Purtroppo non sono stata ascoltata, ma considerata esagerata e paranoica. E il caro prezzo è stato pagato da mio figlio, che oggi avrebbe compiuto 16 anni, e per il quale chiedo giustizia». Così l’Associazione “Federico nel cuore” sta raccogliendo fondi per aiutare Antonella a presentare ricorso a Strasburgo, affinché venga stabilito un principio: lo Stato non può arrogarsi il diritto di decidere cosa sia necessario “al sostegno educativo e psicologico” di un bambino, senza assumersi la piena responsabilità delle conseguenze di tali decisioni. Per informazioni e contatti: www.federiconelcuore.org

«Stiamo assistendo a una escalation di violenza da parte degli uomini che riversano odio nei confronti dei propri figli per colpire comunque la donna», spiega Sonia Vaccaro, psicologa clinica e forense. «Notiamo spesso che questi “uomini violenti” durante il matrimonio non si occupano tanto dei figli ma, al momento del divorzio, sviluppano un interesse improvviso per ottenerne l’affido condiviso: non si tratta di reale attaccamento, ma del bisogno di mantenere il contatto con la donna e l’abuso su di lei. Il partner violento sa bene che la minaccia più efficace è: “Ti porterò via i figli…”, così lei non lo denuncerà per maltrattamenti, non chiederà l’assegno di mantenimento, né il divorzio». Purtroppo, però, non sempre la giustizia valuta il bene del bambino e talvolta prende decisioni che, al contrario, lo espongono a pericoli di ritorsioni da parte del genitore. È stato il caso di Federico, ma potremmo anche citare altri casi dall’esito meno drammatico, come quello del bambino di Padova prelevato a forza dalla scuola per essere collocato in una comunità protetta, in base a un provvedimento giudiziario che aveva diagnosticato al piccolo la Sindrome di alienazione parentale (Pas) da parte della madre.

«La nostra cultura giuridica si caratterizza per un forte “adultocentrismo”, nonostante la centralità del minore venga affermata dalla normativa internazionale (convenzione di New York)», fa notare l’avvocato Ida Grimaldi, esperta di Diritto di Famiglia e avvocato cassazionista al Foro di Vicenza. «Nelle procedure di separazione conflittuale, dove il bambino rimane spesso sullo sfondo, emergono due tipi di prospettive: quella di chi cerca di
ostacolare l’esercizio della genitorialità dell’altro genitore e quella di chi cerca di ricorrere alla “Pas” come strumento per sovvertire gli attaccamenti. Uno degli aspetti più controversi della “Pas” è la decisione di collocare il minore in una comunità allo scopo di “depurarlo” dalle manipolazioni subite. Si tratta di un provvedimento spesso avventato, basato su diagnosi di consulenti che talvolta sposano “a priori” la teoria dell’alienazione parentale in caso di rifiuto del bambino di un genitore, senza approfondire gli effettivi motivi di tale reazione. Se i giudici valutassero più a fondo il vissuto del bambino, forse casi come quello di Federico non accadrebbero».

di Paola Trombetta

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