Nati i bimbi “figli” della revisione della Legge 40

Non sarebbero mai potuti nascere. E invece stanno bene i due gemelli, Francesco e Niccolò, nati qualche settimana fa a Cagliari da mamma Claudia e papà Maurizio che con tenacia, essendo portatori di una malattia genetica come la talassemia, hanno chiesto e ottenuto la diagnosi pre-impianto per i loro embrioni, facendo ricorso al Tribunale contro la Legge 40 che vietava questa procedura, esponendo le coppie al rischio di avere figli malati o di doverli abortire. A perorare la loro causa e quella di un’altra coppia romana, Valentina e Fabrizio che hanno fatto ricorso perché, portatori di malattia genetica ma fertili, non potevano neppure accedere alla Fecondazione assistita, è stata l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, che dopo anni di battaglie in Tribunale ha ottenuto da maggio 2015 la possibilità anche per le coppie fertili, ma portatrici di malattie genetiche, di poter accedere alle tecniche di PMA e sottoporre gli embrioni alla diagnosi pre-impianto, per dare alla luce figli sani. Un risultato importante di cui si è parlato i giorni scorsi in occasione dell’incontro in Senato: “Una battaglia per la vita, cambiando la Legge 40. Quando il desiderio di un bimbo batte l’ostruzionismo della politica”.

«Non volevo che i miei figli seguissero lo stesso calvario che ho percorso io da piccola», racconta mamma Claudia, 38 anni, affetta da talassemia. «Ogni settimana dovevo sottopormi a trasfusioni di sangue come terapia salvavita e assumere farmaci chelanti del ferro, che si accumulava nei miei organi, con gravi rischi soprattutto per il cuore. Questo farmaco veniva introdotto tramite un dispositivo sottocute, che rimaneva inserito per diverse ore, creando fastidio e dolore. E che molti miei “compagni di malattia” non avevano più tollerato e ne avevano sospeso l’assunzione, rischiando la vita, perché il ferro in eccesso ha soffocato loro il cuore. Quando ho conosciuto mio marito Maurizio, portatore sano della mia stessa malattia, siamo stati di fronte a un bivio: mettere al mondo un figlio voleva dire rischiare al 50% di trasmettere la talassemia. Nel frattempo avevamo conosciuto l’avvocato Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni che, dopo aver sentito la nostra storia, ci volle aiutare a titolo gratuito. Per me è stato un miracolo ed ero sicura che qualcosa finalmente sarebbe successo. Sono stati anni difficili: il tribunale, il ricorso contro l’ospedale di Cagliari, le testimonianze e alla fine la sentenza. Avevamo vinto e potevo così ricorrere alla fecondazione assistita con il test genetico dell’embrione prima dell’impianto. Fino ad allora non ero mai riuscita a rimanere incinta. Avevo fatto la prima FIVET a ottobre 2013, poi a gennaio 2014. Ma la gravidanza, appena iniziata, si era risolta in un aborto spontaneo. Poi, dopo aver vinto la causa, ci siamo sottoposti alla PMA con diagnosi pre-impianto: dopo due tentativi mancati, finalmente a luglio 2016 ho avuto la splendida notizia di essere incinta, questa volta di due gemelli. Dopo qualche mese, per sicurezza, mi sottoposi alla villocentesi che confermò l’assenza di talassemia. Oggi i nostri figli stanno bene, anche se sono nati un po’ in anticipo, e avranno un’infanzia serena, senza ospedali, senza trasfusioni, senza il calvario che ho dovuto sopportare nella mia vita, da quando sono nata. Sono felice di questa mia scelta, condivisa da mio marito, anche se abbiamo lottato per anni contro una legge inadeguata e incompleta. E sono contenta che il risultato ottenuto abbia aperto la strada a tante altre coppie nelle nostre condizioni. Sono convinta che ciascuna coppia debba avere la possibilità di scegliere di mettere al mondo un figlio sano. E questa scelta la ripeterei 100 volte!».

Una scelta determinante per più di un centinaio di coppie che ricorrono ogni anno alla PMA e sono portatrici di malattie genetiche e cromosomiche. «L’identificazione del rischio genetico prima del concepimento, mediante esami di screening, è una valida alternativa alla diagnosi pre-natale», commenta la dottoressa Laura Rienzi, presidente della Società Italiana di Embriologia, Riproduzione e Ricerca (SIERR) e direttore dei Laboratori di PMA della Clinica Valle Giulia di Roma, di GENERA Umbria e Veneto. «Questa tecnica si prefigge come obiettivo di consentire alle coppie (fertili e infertili) di essere informate sullo stato di salute dei propri embrioni, prima che venga avviata una gravidanza. In questo modo si possono minimizzare i rischi gestazionali quali l’aborto spontaneo o terapeutico e le sindromi cromosomiche e genetiche fetali. Da un’indagine effettuata nel nostro centro, si è visto che, ricorrendo alla diagnosi pre-impianto, il rischio di aborto spontaneo nelle donne con età superiore a 36 anni è passato dal 30-50% al 10%. Dall’analisi condotta dal registro PMA dell’Istituto Superiore di Sanità sui cicli di fecondazione assistita, il tasso di aborto spontaneo nella PMA con un’età media di 36 anni è del 21%, e raggiunge il 50% nelle donne di età superiore a 40 anni. Poiché in Italia circa 15 mila sono le donne che cercano una gravidanza dopo i 40 anni, questa tecnica consentirebbe di ottimizzare gli impianti degli embrioni ed evitare il trasferimento in utero di quelli “difettosi” che potrebbero poi causare aborti spontanei o  feti malformati. Per questo la diagnosi pre-impianto è uno strumento diagnostico fondamentale che dovrebbe essere reso accessibili a ogni coppia a rischio al pari della diagnosi pre-natale».

di Paola Trombetta    

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