La chirurga che si prende cura delle donne

Cristina Ferraris è chirurga senologa all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Alla sua competenza e professionalità si affidano molte donne, che devono subire un intervento per l’asportazione di un tumore al seno. Ma i problemi delle donne operate non si esauriscono con l’intervento chirurgico. Che provoca sicuramente una mutilazione nell’aspetto fisico, ma anche tante problematiche nella qualità di vita, come la menopausa precoce o il rischio di infertilità, vissute con ansia e preoccupazione. Per questo Cristina ha voluto creare un ambulatorio particolare, denominato progetto PREMIO (PREMenopausa Indotta da Ormonoterapia), il primo nel suo genere in Italia, dove le donne operate possono parlare tranquillamente dei loro problemi a un’équipe di specialisti (ginecologo, endocrinologo, dietologo, psicologo) e ricevere assistenza e consigli da un chirurgo-senologo che è, prima di tutto, una donna.

Come ha influito il suo essere donna nella professione e nell’approccio con le pazienti?
«Sicuramente il fatto di essere donna consente una maggior empatia con le pazienti che mi parlano con franchezza, nella certezza di essere ascoltate e comprese. Tra donne, infatti, si instaura una sorta di complicità, perché ci si immedesima nei problemi che vengono esposti come se li vivessimo insieme. Il chirurgo uomo si preoccupa soprattutto del buon esito dell’intervento, della guarigione clinica della paziente. Ma trascura a volte il vissuto psicologico della malattia, le conseguenze sulla qualità di vita e sulla nuova immagine corporea a cui la donna deve gradatamente adattarsi».

Quali sono problemi più frequenti che le donne riferiscono dopo l’asportazione di un tumore al seno?
«Soprattutto la modificazione dell’aspetto fisico e dell’immagine corporea, nei casi di mastectomia radicale. Anche se la chirurgia plastica ha fatto grandi progressi, la donna operata teme di perdere il proprio “appeal” e non solo nei confronti del partner, ma anche verso il mondo esterno. Ha paura di non avere più il fisico adeguato per mantenere una vita relazionale e professionale come prima, teme i disturbi che le terapie possono comportare, in particolare quelli causati dalla menopausa precoce, provocata dai farmaci anti-estrogenici, come l’aumento di peso, le vampate, la depressione, l’insonnia».

Nel vostro ambulatorio seguite anche donne giovani che, forse più delle altre, sono preoccupate per la perdita, pur temporanea, della fertilità. Come gestite questi problemi?
«Le donne giovani operate di tumore al seno sono in aumento e rappresentano il 20-30% del totale. A causa delle terapie anti-estrogeniche, che devono assumere per cinque anni, non possono mettere al mondo figli. E questo è un problema molto difficile da affrontare. Se hanno meno di 30 anni, solitamente, la fertilità si ripristina dopo cinque anni di terapia con tamoxifene o farmaci analoghi. E molte donne sono riuscite ad avere un bambino. Come una mia paziente 28enne, con la quale sono ancora in contatto, che tra qualche mese diventerà mamma. Se, invece, vengono operate dopo i 35 anni, c’è il rischio di non riuscire a ripristinare una normale ovulazione. In questi casi, proponiamo la conservazione degli ovociti e indirizziamo le pazienti alla Clinica Mangiagalli, convenzionata con il nostro Istituto per questo genere di procedure. Essendo però una pratica molto recente, non abbiamo ancora casi di maternità dopo crioconservazione, perché comunque occorre attendere almeno cinque anni per concludere il ciclo di terapie».

Mi sembra di capire che i suoi rapporti con le pazienti non si limitano al piano strettamente medico, ma continuano anche al di fuori dell’ospedale. Quanto tempo dedica alla sua professione e come la concilia con la sua vita privata?
«Praticamente ho dedicato la mia vita all’ attività professionale: non avendo avuto figli, ho rivolto tutte le mie energie e il mio tempo alle pazienti. Con alcune di loro è nato anche un bellissimo rapporto di amicizia che continua nel tempo. La scelta di dover rinunciare in parte alla vita privata è un po’ una via obbligata per le donne che vogliono dedicarsi a tempo pieno al lavoro. Per l’uomo è diverso, perché gli impegni familiari non sono così pressanti come per la donna».

È forse questo il motivo per cui, ad alti livelli professionali, gli uomini superano ancora numericamente le donne?
«Certo, la gestione della famiglia e dei figli da parte della donna è molto più impegnativa rispetto all’uomo. E ancora oggi, a livello dirigenziale, sono poche le donne che arrivano al vertice della carriera. Nel nostro Istituto, ad esempio, quando ho cominciato a lavorare, circa 20 anni fa, le donne chirurgo erano pochissime, tant’è che nemmeno esistevano spogliatoi separati nelle sale operatorie. Oggi la situazione sta cambiando e nel nostro Istituto, su una cinquantina di chirurghi, dieci sono donne. E cambia anche la mentalità delle pazienti. Se prima la maggior parte di loro preferiva essere operata da un uomo, oggi sono sempre più numerose quelle che chiedono di essere operate da una donna, perché si sentono più capite e affrontano l’intervento in modo più sereno, come se si affidassero a un’amica, più che a un medico. E questa fiducia mi gratifica profondamente e mi ripaga dei tanti sacrifici!».

di Paola Trombetta  

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