“BAMBINI FARFALLA”: CONVIVERE CON L’EPIDERMOLISI BOLLOSA

Luca ha iniziato la scuola la scorsa settimana in prima elementare. Ed è già entusiasta dell’ambiente e dei compagni. Nonostante i timori di mamma Cinzia, che aveva allertato la maestra sui problemi di salute di suo figlio. E sulla particolare attenzione che i compagni dovranno avere nei confronti di Luca che non può subire traumi, sfregamenti o cadute a causa della sua malattia. E soprattutto che non deve essere discriminato per le lesioni rossastre sul volto, sulle braccia e sulle gambe, provocate dall’Epidermolisi Bollosa, una malattia che fa squamare la pelle, un po’ come accade alle farfalle quando si tengono in mano… Non a caso il nome di “bambini farfalla”.

«Quando è nato Luca non me lo hanno fatto vedere subito perché temevano di impressionarmi, dal momento che non aveva la pelle sulle gambe», ricorda Cinzia. «I medici stessi non sapevano bene che malattia fosse, fino al referto dell’IDI di Roma. Dopo una settimana l’ho preso in braccio e avevo perfino paura ad accarezzarlo perché temevo di procurargli dolore, a causa delle ferite aperte che aveva. Ho trascorso con lui due mesi in Terapia intensiva e ho imparato a medicarlo, utilizzando garze particolari che fanno cicatrizzare la pelle. Ancora oggi tutte le sere affrontiamo il rito della medicazione, a cui Luca è ormai abituato, tanto da sentirsi quasi un bambino speciale, nonostante il dolore e il disagio che certamente avverte. Basti pensare che ha già subito tre interventi alle mani, per separare le dita che tendono a congiungersi. Per fortuna Luca ha un carattere meraviglioso e pieno di vita. Adora il calcio e da grande vorrebbe fare il calciatore, anche se temo che non sarà possibile. E allora cerco di indirizzarlo a occuparsi di calcio in modo più indiretto, magari con l’idea di poter seguire tutte le partite come cronista sportivo. Non avrà una vita facile Luca, ma la sua gioia di vivere, di sperimentare, di conoscere e la consapevolezza della sua malattia, che non dovrà essere per lui un limite, mi hanno dato la forza di dedicarmi anche agli altri bambini come Luca e ho accettato l’incarico di presidente dell’Associazione Debra Italia Onlus e Debra International, il cui acronimo (Dystrophic Epidermolysis Bullosa Recessive Autosomic), è in realtà il nome della ragazza inglese morta a 20 anni per Epidermolisi Bollosa, alla quale i genitori hanno deciso di dedicare l’Associazione».

Sono circa un migliaio i bambini in Italia che nascono con questa malattia e 500 mila nel mondo.

«Si tratta di una malattia genetica rara, estremamente complessa e dai profondi risvolti psicologici, sia per il paziente che per i familiari», spiega la dottoressa May El Hachem, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Dermatologia Pediatrica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. «La sua manifestazione clinica più evidente riguarda la pelle, dove si formano bolle e lacerazioni, paragonabili a ustioni di terzo grado, che possono degenerare in rari casi in carcinoma cutaneo. La malattia può coinvolgere anche organi interni, interessando soprattutto le mucose di rivestimento esofagee, uro-genitali e ano-rettali. L’Epidermolisi Bollosa può manifestarsi in tre forme principali: EB semplice, EB giunzionale e EB distrofica. Se le forme lievi consentono la conduzione di un’esistenza normale, le forme più gravi possono essere letali anche in età neonatale o intrauterina. Per questo è indispensabile che il paziente sia seguito dal dermatologo e dal neonatologo, pediatra o medico di famiglia, in funzione dell’età. Anzitutto è necessario garantire una diagnosi precoce di EB e del sottotipo, in modo da informare la famiglia sulla prognosi e su eventuali complicanze a cui il proprio figlio andrà incontro. Inoltre, è importante avviare la diagnosi genetica per un counseling adeguato. E’ altrettanto indispensabile un approccio multidisciplinare con l’intervento di diversi specialisti per la gestione delle lesioni muco cutanee e delle eventuali complicanze extracutanee di ordine medico o chirurgico. Il coinvolgimento di specialisti di varie discipline ha lo scopo di assistere in modo globale il paziente, offrendo a lui e alla sua famiglia, nella stessa sede, le necessarie prestazioni specialistiche, mediche, chirurgiche e psico-sociali. Purtroppo questa modalità di approccio è attualmente possibile solo in pochi centri in Italia».

«E’ indispensabile che le istituzioni garantiscano centri di cura adeguati e contribuiscano con i dovuti finanziamenti a supportare la comunità medico-scientifica nella ricerca di una cura definitiva per questa grave malattia genetica», aggiunge la professoressa Susanna Esposito, direttore dell’Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura dell’Ospedale Maggiore Policlinico, Università degli Studi di Milano, dove è stato aperto da qualche anno un centro di cura per questa malattia. «Oggi esistono solo terapie sintomatiche, tra cui una crema a base di allantoina e un gel derivato da liquido placentare, ricco di piastrine, per favorire la cicatrizzazione. In via di sperimentazione sono invece sostanze in grado di bloccare il processo infiammatorio, che favorisce la formazione delle lesioni, e di ricostituire quelle proteine di adesione della pelle che mancano nelle persone malate. Per questo ripongo moltissime speranze nello studio e nella ricerca sull’autoimmunità e le infiammazioni croniche. In fase sperimentale è anche l’autotrapianto di pelle, finora praticato solo in un paio di pazienti al Centro di Modena dal professor Michele De Luca».

UN’INDAGINE  SULLA CONDIZIONE DEI MALATI

Purtroppo la ricerca va a rilento perché si tratta di una malattia “orfana”: interessando poche persone, non induce le aziende a investire in nuove terapie. Per sollevare il problema e far conoscere la realtà dei malati, Debra Italia ha voluto promuovere un’indagine: “La voce delle persone affette da Epidermolisi Bollosa. Percezione della malattia, dimensioni rilevanti e aspettative per il futuro”, realizzata da Doxa dove sono evidenziate le difficoltà quotidiane che i pazienti e i familiari devono affrontare.

«Come genitore di un bambino malato di EB, posso affermare che l’impatto della malattia è decisamente sottovalutato eccessivo», conferma Cinzia Pilo. «La gestione quotidiana delle medicazioni è affidata a noi familiari, che perciò sopportiamo un carico fisico e psicologico eccessivo. Se a tutto ciò sommiamo la curiosità indiscreta che la EB desta nelle persone, possiamo intuire il livello di stress psicologico e discriminazione sociale a cui i nostri ragazzi e noi familiari siamo costantemente sottoposti. Questa indagine è fondamentale perché finalmente le persone direttamente coinvolte hanno potuto mettere in luce gli aspetti psico-sociali di maggiore impatto della malattia sui quali occorre lavorare».

Attraverso l’indagine Doxa, primo esperimento a livello mondiale, sono state raccolte preziose informazioni sulla patologia e sul vissuto dei pazienti e dei loro caregiver. L’indagine ha infatti coinvolto sia un campione di pazienti giovani e adulti, sia una quota di genitori di pazienti in età infantile, per un totale di 33 partecipanti provenienti da tutt’Italia. Venti pazienti su 30 soffrivano di EB distrofica recessiva, la forma più grave. Grazie a queste testimonianze, è stato possibile analizzare l’impatto quotidiano della patologia delineando le aree critiche più rilevanti.

I risultati delle interviste confermano che da un punto di vista fisico la comparsa di bolle e lacerazioni risulta essere il fattore comune tra tutte le forme di EB. Queste manifestazioni sono accompagnate da una serie di altre complicanze e disfunzioni, tra cui pseudo-sindattilia, stenosi esofagea, malformazioni della cavità orale, celiachia, stipsi, lacerazioni corneali, lesioni cancerose, che delineano un quadro molto variabile.

Molti, tra i caregiver intervistati, hanno rivelato di vivere in una condizione di costante disagio e difficoltà. Per i pazienti, la mancanza di autonomia rappresenta l’aspetto più invalidante e difficile da accettare, soprattutto con il passaggio all’età adulta. La stessa situazione genera nei caregiver il peso della responsabilità, spesso accompagnata da stati di ansia: la fragilità dei propri cari e l’impossibilità di poter pianificare sul breve e lungo periodo, a causa dei frequenti infortuni e imprevisti, fa sì che il caregiver viva in uno stato di costante allerta e tensione.

L’approccio al dolore e il ruolo ad esso attribuito da pazienti e caregiver sono un aspetto fondamentale all’interno della ricerca. Il paziente, abituato al dolore sin dalla nascita, sviluppa una resistenza completamente diversa da quella di chi lo assiste e tende a considerare il dolore un handicap secondario se paragonato alle limitazioni pratiche imposte dalla malattia. Infatti, nella conquista dell’indipendenza, sono queste ultime a rappresentare il reale problema e suscitare frustrazione.

Il caregiver, invece, non essendo in grado di comprendere esattamente l’entità percettiva del dolore, vive con profonda ansia e impotenza momenti quali bendaggio e medicazioni che il proprio caro deve affrontare ogni giorno. Tra i diversi interventi medico-chirurgici che i pazienti sono spesso costretti a subire nel corso della loro vita, gli interventi di ricostruzione della cute delle mani rappresentano i momenti in assoluto più dolorosi. Purtroppo sono frequenti anche altri interventi molto critici quali le dilatazioni esofagee e le asportazioni di carcinomi, per fortuna piuttosto rari.

di Paola Trombetta

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