NO ALLE DISCRIMINAZIONI DI GENERE: LE DONNE DEVONO FAR SENTIRE LA LORO VOCE

8 Marzo, giornata internazionale della donna. Ma ha ancora senso celebrare questa storica data? (la prima celebrazione avvenne negli Stati Uniti nel 1909 e in Italia nel 1922). Noi ci crediamo ancora, nonostante le mimose ci indispettiscano. O, meglio, crediamo nel fatto che le donne debbano far sentire la propria voce. E crediamo anche che non bisogna mai abbassare la guardia di fronte alle discriminazioni di genere, a casa, sul lavoro o in famiglia, in un Paese in cui le donne vengono ancora uccise perché vogliono essere libere e autonome. In un Paese dove le donne guadagnano il 20% in meno degli uomini a parità di competenze e orario di lavoro, dove il tasso di occupazione femminile è ancora sotto il 50%, e che è al 69° posto della classifica mondiale per parità tra i generi.
Certamente grandi progressi sono stati fatti: la presenza delle donne è aumentata in tutti i campi tradizionalmente “maschili”, anche in politica. Le donne in “posizione di comando” sono molte più di un tempo. Ma c’è ancora molto per cui impegnarsi per ottenere quella parità di opportunità e diritti che ancora non c’è. Ce ne ha parlato Paola Profeta, giovane economista, mamma di due bambini,  professoressa associata di Scienze delle Finanze presso l’Università Bocconi di Milano, coordinatrice di Dondena Gender Initiative, un’unità di ricerca del Centro Dondena che raccoglie gli studi di economia di genere e leadership femminile dell’Università Bocconi.

Di cosa si occupano progetti e ricerche ispirati al gender studies condotti attualmente in Italia? « «Gli studi di genere raccontano come nella storica partita che si è svolta attraverso i secoli, il rapporto tra uomini e donne si è protratto in modo squilibrato, asimmetrico. Le differenze biologiche tra i due sessi in natura si sono prestate alla costruzione di una disparità che si è perpetuata nel tempo e in virtù della quale gli uomini hanno potuto stabilire vantaggi e maggiori poteri nei diversi contesti: economico, sociale, politico. I gender studies fanno luce sui condizionamenti sociali che determinano discriminazioni e stereotipi. E’ forse un destino biologico che le donne debbano svolgere lavori meno prestigiosi degli uomini o essere pagate di meno, o che non possano affermarsi nei percorsi scientifici o nel mondo della politica? O forse è legge naturale che gli uomini non possano prendere il congedo per occuparsi loro dei figli? Gli studi di genere ci parlando di questo. Un approccio che ha in sé una potenzialità dirompente: perché nel momento in cui affermiamo che queste differenze (e le disuguaglianze che ne conseguono) non sono naturali, ma un costrutto della cultura diciamo anche che è possibile cambiarle, liberando gli individui, uomini e donne, dai condizionamenti culturali che inficiano le scelte e i comportamenti. Per promuovere effettive pari opportunità, in vista di una sensibilizzazione più consapevole del valore della differenza».

Cosa dovrebbe essere l’Italia per diventare un Paese per donne? Ci sono best practice che potrebbero essere prese a modello da realtà di paesi esteri all’avanguardia?
«Il punto di partenza è l’occupazione femminile, dato che le donne ormai sono altrettanto istruite degli uomini. Aumentare la loro presenza nei luoghi di lavoro è importante, ma non basta se non porta anche a nuove politiche di conciliazione e a un modo nuovo di lavorare – da cui possono trarre beneficio tutti, anche gli uomini. Più asili nido (solo circa il 12% dei bambini tra 0 e 2 anni lo frequenta). Voucher baby sitter, detrazioni fiscali per le donne lavoratrici con figli e con spese dichiarate sono misure essenziali da rilanciare. E sicuramente anche il congedo obbligatorio di paternità di 15 giorni, a retribuzione piena (presi in sostituzione della madre). Molti paesi europei hanno già introdotto un congedo di paternità, di durata superiore all’unico giorno previsto dall’Italia (più due facoltativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione). Non parliamo solo dei paesi scandinavi (dove si arriva fino a un mese di congedo obbligatorio con retribuzione al 100%), ma anche di Spagna (i padri hanno diritto a 13 giorni di congedo). Era previsto nel ddl che doveva essere presentato con la legge di stabilità e che per il momento è rimasto nel cassetto. Bisognerà tornare a riproporlo. Si tratterebbe di un segnale importante dal grande valore simbolico per favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia. Un grande passo avanti per scardinare l’idea che avere figli sia un costo associato solo alle madre. Aiutando le donne, allo stesso tempo, in quella che viene definita la conciliazione, più difficile da raggiungere senza la condivisione. Tra l’altro c’è un nuovo elemento da non sottovalutare: può assecondare il desiderio di quei padri che vorrebbero seguire più da vicino la crescita dei figli nei primi mesi di vita, senza che la loro scelta sia stigmatizzata all’interno dell’azienda».

Da agosto 2012 è diventata operativa la Legge Golfo-Mosca (dal nome delle prime firmatarie) che impone le quote rosa (pari ad almeno un quinto dei propri membri), nei cda e collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche. Possiamo dire che qualcosa è già cambiato nel nostro Paese?
«E’ stato un balzo in avanti rivoluzionario. Sì, i dati dimostrano che è aumentato il numero di donne nei cda e nei collegi sindacali delle società quotate. Oggi siamo a circa il 23% di presenza femminili, un dato che ha superato i limiti minimi imposti dalla legge, è un incremento non da poco, considerando che nel 2010 erano solo il 6%. Ma non si tratta soltanto di un aumento numerico: l’obbligo delle quote ha innescato un processo positivo, che ha spinto a selezionare anche gli uomini secondo criteri meritocratici e non più secondo vecchie logiche e abitudini. Risultato: è aumentata la qualità dei consiglieri (uomini e donne sono più istruiti e preparati), si è ridotta l’età media dei consiglieri (altissima in Italia), ma anche la governance delle società è migliorata. La nostra più grande sfida non è solo arrivare a una percentuale di donne ai vertici diversa da quella da cui partiamo, ma anche dimostrare che i luoghi di lavoro con maggiore mix di genere portano a migliori performance aziendali».

di Cristina Tirinzoni

 

A CHE PUNTO SIAMO IN TEMA DI PARITA’

Che le donne siano spesso penalizzate non è uno stereotipo, ma una realtà che emerge dai dati. L’Italia è molto indietro nel mercato del lavoro: abbiamo il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa (con la sola eccezione di Malta), pari al 47%; contro il 65,3% di quella maschile, mentre gli obiettivi europei erano del 60% per il 2010 e ora del 75% per il 2020. Sono ben 2,3 milioni le donne che risultano inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario e il 45% vive al sud. Secondo il Global gender gap index del World Economic Forum, nel 2014 l’Italia è stata al 114 esimo posto per uguaglianza di genere nelle opportunità economiche su 145 paesi. Senza contare il gap salariale, al 7,3% (dati Eurostat) con punte anche del 25% Tra i professionisti e i manager, la percentuale delle manager resta al 15,1% del totale contro il 25% in Europa. Formalmente la parità di genere è riconosciuta, ma modelli culturali, stereotipi radicati e troppe discriminazioni lasciano ancora le donne indietro. Basti pensare che oltre l’80% degli Italiani dichiara che i bambini soffrono se la mamma lavora, una percentuale di gran lunga superiore a quella riscontrata nel resto d’Europa. E la cura dei familiari e il lavoro domestico gravano esclusivamente sulle donne.  (C. T.)

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