IL SINODO DEI VESCOVI SI APRE ALLE DONNE

e 17 persone singole su 265 padri sinodali) al Sinodo della Famiglia. Un appuntamento importante per la Chiesa cattolica, in cui si sono contrapposte differenti posizioni dottrinali, che all’inizio sembravano inconciliabili. Ma alla fine il dialogo e il confronto si sono rivelati costruttivi e hanno indotto il Santo Padre ad esprimere piena soddisfazione per i risultati. Al termine del Sinodo, abbiamo rivolto alcune domande alla professoressa Lucetta Scaraffia. 

Per un solo voto (178 su 265) è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi su un tema centrale del Sinodo: quello della comunione ai divorziati risposati, affidandone però la valutazione a discrezione dei singoli sacerdoti e dei singoli casi. Cosa pensa di questa votazione così “risicata”? E’ veramente un segnale di apertura alle coppie che vivono una situazione difficile e quale ripercussione potrebbe avere nella concreta realtà ecclesiale?

«Intanto, non è una votazione risicata: hanno votato a favore più di due terzi dei padri sinodali. Penso che la valutazione caso per caso sia l’unica possibile, dal momento che i casi sono veramente molto diversi tra di loro, e ciascuno quindi richiede una risposta diversa da parte dei padri spirituali. Dare una ricetta valida per tutti non è possibile. Per esempio molti vescovi, che provengono da paesi dove si praticano con frequenza matrimoni misti, hanno ricordato come, nel caso di queste unioni, se celebrate in chiesa, il coniuge cattolico viva un destino ingiusto. Mentre infatti in tutte le altre religioni, comprese le altre confessioni cristiane, il divorzio è ammesso, non lo è per la chiesa cattolica. Quindi in ogni paese la situazione è vissuta in modo diverso, e anche questo ha influito nel giudizio. Un’altra situazione da valutare individualmente, secondo i padri sinodali, è l’abbandono da parte di uno dei due coniugi. Perché negare al coniuge abbandonato il diritto di potersi rifare una famiglia? Sono tanti i motivi per cui la valutazione dei casi singoli viene affidata alla discrezione dei sacerdoti. E questo dovrebbe indurre le coppie divorziate e risposate a rivolgersi con fiducia ai sacerdoti, per potersi accostare senza remore ai sacramenti».

 

A fronte di questa “apertura”, tenendo conto che prima del Sinodo la Chiesa negava la comunione ai divorziati, è stata invece riconfermata una “chiusura” alle unioni omosessuali, che non potranno mai essere equiparate alle coppie sposate. Come si concilia questa posizione con il tema della misericordia tanto caro a Papa Francesco?

«In realtà le argomentazioni del Sinodo dedicate agli omosessuali hanno segnato un cambiamento, un’accettazione larga e piena dell’omosessualità, la fine di una condanna rigida e indiscutibile. E questo nel rispetto della dignità della persona. Il rifiuto del matrimonio, invece, è un’altra cosa. Dire che il matrimonio è riservato solo alle coppie eterosessuali, perché destinate alla procreazione, non vuol dire essere contro l’omosessualità. Vuol dire solo vedere la realtà, la diversità delle situazioni e non pensare che basta una legge per rendere uguale ciò che uguale non è. L’eguaglianza dei diritti, che deve essere garantita a ogni omosessuale in quanto essere umano, non significa dimenticare le differenze. Non esiste un diritto al matrimonio, né un diritto al figlio».

 

Con 251 voti, che hanno quasi sfiorato l’unanimità, i padri sinodali sembrano auspicare una maggiore presenza delle donne nella Chiesa, sottolineando che “la dignità della donna ha bisogno di essere difesa e promossa”: in che modo potrebbe attuarsi questa presenza femminile in uno contesto, come la Chiesa cattolica, dove il “maschilismo sacerdotale” è da secoli imperante?

«In primo luogo, vorrei ricordare che il cristianesimo si fonda sulla parità spirituale fra donne e uomini, e ha sempre difeso la dignità della donna, e ancora oggi lo fa, nelle regioni del mondo in cui questa viene oltraggiata. E’ solo nei paesi occidentali, in cui la donna ha raggiunto la parità dei diritti civili, che la Chiesa appare, ed è, squilibrata rispetto alla società laica perché non fa posto alle donne. Naturalmente i ruoli in cui le donne potrebbero accedere alla vita della Chiesa sono tanti, anche senza il sacerdozio. Ma la cosa più importante è che venga ascoltata la loro voce, che siano presenti con diritto di parola e di voto nei momenti in cui si prendono decisioni per tutta la Chiesa, della quale anch’esse fanno parte a pieno titolo, come tutti i battezzati. Le donne dovrebbero partecipare, anche senza dover cambiare molto, almeno all’inizio: sarebbe essenziale ci fosse almeno un terzo di insegnanti donne nei seminari e che il punto di vista femminile nell’esegesi dei testi sacri e nella teologia, fosse accettato nel curriculum di insegnamento dei seminari e delle università cattoliche. Basterebbe poi che le donne, elette al vertice di associazioni già esistenti, come le unioni delle superiore generali, partecipassero come pari grado alle riunioni dei cardinali. In sostanza, che le gerarchie ecclesiastiche imparassero ad ascoltare le donne e a confrontarsi con loro».

di Paola Trombetta

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