IL DOLORE PROVATO DA BAMBINI NON SI DIMENTICA

È spesso il dolore a lasciare una traccia indelebile nella memoria del neonato e dei bambini: un’esperienza di sofferenza, precoce e prematura, che potrebbe influenzare lo sviluppo armonico della loro personalità. Eppure questa condizione, provata da moltissimi piccoli, è ancora troppo sottostimata dagli “addetti ai lavori”. Un’indagine condotta in Italia su 19 strutture di Pronto Soccorso dal gruppo di studio PIPER (Pain in Pediatric Emergency Room) evidenzia infatti che il dolore, fra i bambini, non solo è la prima causa di accesso ai Pronto Soccorso, ma anche che in età inferiore ai 14 anni solo nel 26% delle strutture è “preso sul serio”, contro circa un terzo dei casi in cui per la sua valutazione non vengono adottate neppure le apposite scale di misurazione e in quasi la metà delle situazioni non trattato come raccomanderebbero i protocolli. E il rischio che il bambino corre, per questa disattenzione, è importante: la possibile cronicizzazione del dolore o un’alterazione della soglia di percezione in età adulta.

In funzione di questi dati importanti l’indicazione, ma anche l’appello e l’invito ai pediatri ospedalieri e di famiglia che arriva dal Congresso Italiano di Pediatria tenutosi di recente a Palermo, è di ascoltare il lamento doloroso dei bambini, di valutarlo, misurarlo e, laddove necessario, trattarlo adeguatamente. «ll dolore ha sia conseguenze a breve termine quali il peggioramento clinico, le complicanze, il prolungamento dell’ospedalizzazione – spiega Franca Benini, Membro della Commissione Nazionale Terapia del Dolore e Cure Palliative e coordinatrice del Progetto Formativo NienteMale Junior dedicato ai medici pediatri e di famiglia – sia a lungo termine, dando adito allo sviluppo anche di problemi psico-relazionali. Infatti stimoli dolorosi ripetuti e senza copertura analgesica, determinano modificazioni strutturali e funzionali persistenti del sistema nocicettivo/antalgico del bambino che permangono per tutta la vita e modificano la soglia del dolore. Vale a dire che a tutte le età, uno stimolo doloroso lascia traccia nella memoria».

Ma a soffrirne maggiormente è il neonato o ancora prima il feto che già a partire dalla 23° settimana di gestazione è in grado di percepire il dolore. «A parità di stimolo doloroso – aggiunge la dottoressa Patrizia Papacci, Neonatologa presso la Terapia Intensiva Neonatale dell’Università Cattolica di Roma – il neonato, rispetto al bambino, percepisce un dolore più intenso a causa della mancata risposta inibitoria dell’organismo (perché non ancora formata) a questa sensazione dolorosa». Così, nel neonato, persino una visita medica o operazioni di nursing, specie se attuate dopo una procedura dolorosa come un prelievo, possono avere “effetti negativi”. «Nel neonato con età gestazionale bassa – continua la neonatologa – procedure dolorose possono arrivare anche a compromettere la situazione respiratoria, cardiocircolatoria e metabolica già precarie e determinare casi di emorragia intraventricolare e/o patologia ipossico-ischemica cerebrale (mancata affluenza di ossigeno al cervello) che è fra le principali cause di disabilità neurologica del bambino con, in alcuni casi, esiti nefasti».

Ma come stimare adeguatamente la sintomatologia? Facendo attenzione alle manifestazioni fisiche e/o espressive del bambino, valutate poi tramite “scale di dolore” appropriate e validate. «Quelle di riferimento per efficacia nella definizione della quantità della sintomatologia e per applicabilità in ambiente ospedaliero, ma anche in ambulatorio o a casa – precisa ancora la dottoressa Benini – sono tre. In particolare la scala di Flacc, indicata al di sotto dei tre anni, che prende in considerazione le reazioni non verbali (espressione del volto, posizione delle gambe, attività, pianto e consolabilità del bambino) di fronte a uno stimolo doloroso; la scala di Wong-Baker, valida a partire dai 4 anni che sfruttando sei facce, da quella sorridente corrispondente a “nessun male” a quella che piange riferibile a “il peggior male possibile”, invita il bambino a indicare la faccina che meglio corrisponde alla sensazione di dolore provata in quel momento. Da 8 anni in poi, quando il bambino ha acquisito le nozioni di proporzione, può essere utilizzata, anche dai genitori, la scala numerica nella quale il bambino deve indicare l’intensità di dolore che prova scegliendo o indicando un numero da 0 a 10».

Una volta valutato e accertato il dolore, le possibilità terapeutiche sono oggi molteplici: dai farmaci più tradizionali – di norma paracetamolo, FANS, e oppioidi (da somministrare solo in ambiente ospedaliero nel periodo neonatale) – a tecniche soft ma di validità scientifica quali la respirazione, la visualizzazione (ossia un viaggio mentale nel luogo preferito), la lettura, il racconto di storie, le bolle di sapone o ancora tecniche di desensibilizzazione come il guanto magico e il gioco dell’interruttore, usate per abbassare la sensibilità di una determinata zona corporea. «La scelta della tecnica da utilizzare – dichiara ancora la Papacci – dipende dall’età del bambino, dalla patologia, dal tipo di dolore. Nel neonato, invece, per attutire la trasmissione del dolore a livello centrale, le tecniche più usate sono le stimolazioni sensoriali multiple tattili (“gentle handling”, carezze), l’uso di sostanze dolci (saccarosio e glucosio per la prevenzione del dolore procedurale), il contenimento tenendo il piccolo fra le mani».

Qualche passo avanti verso una maggiore attenzione al dolore pediatrico sembra essere stato fatto, dopo la legge 38/2010, con l’intesa tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano approvata in data 25 luglio 2012, la quale prevedrebbe l’istituzionalizzazione di strutture e percorsi specifici. «E’ obbligo del servizio sanitario nazionale garantire una presa in carico e una cura attiva e globale – spiega Marco Spizzicchino della Commissione nazionale Cure Palliative e Terapia del Dolore – che salvaguardi la dignità del bambino e supporti la famiglia. Un percorso che richiede da un lato la definizione di una terapia antalgica specialistica, anche in relazione alla complessità di interventi e competenze e che non può essere affidata ai referenti del paziente, e dall’altro che risponda al bisogno di avere a disposizione interventi altamente specialistici il più possibile vicino al luogo di vita del bambino, idealmente al domicilio». Premesse che fanno sperare che la gestione domiciliare dei piccolii inguaribili, possa presto diventare un modello assistenziale attuato in maniera efficace e se, al momento, non capillarizzato almeno in via di espansione.

 

di Francesca Morelli

Articoli correlati