ARTRITE REUMATOIDE: AL VIA LA CAMPAGNA “IO NE PARLO”

Il primo problema è il ritardo diagnostico, per mancanza di esami specifici o di marcatori nel sangue, che può portare al riconoscimento della malattia anche dopo 6-7 anni dalla sua comparsa, o a scambiarne i sintomi per dolori reumatici, quando invece si tratta di artrite reumatoide (AR). «Una malattia cronica progressiva e debilitante, che può sopraggiungere a qualsiasi età, anche con esordi giovanili, sebbene abbia il picco di insorgenza fra i 35 e 50 anni», spiega il dottor Marco Broggini, delegato per la Regione Lombardia della Società Italiana di Reumatologia. A farne le spese oltre 300 mila persona, di cui 3 su 4 sono donne, che sperimentano a poco a poco difficoltà di movimento, perdita di autonomia anche nella gestione delle azioni quotidiane più semplici (tenere in mano le posate, aprire una bottiglia, lavarsi, vestirsi, allacciare scarpe e bottoni), che isolano dalla vita sociale chi ne soffre. Della malattia non si conoscono ancora le cause di insorgenza e, purtroppo, non si può sapere chi potrà svilupparla nell’arco della vita. E’ allora fondamentale la diagnosi precoce.

Con l’intento di informare sulla possibilità di diagnosi precoce e il corretto approccio alla malattia, è partita in questi giorni da Milano la campagna “AR: Io ne parlo” (www.arioneparlo.it), promossa da Roche con il supporto di ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici) Onlus. «Chi è affetto da questa malattia è convinto che la diagnosi sia il primo passo verso l’invalidità, il peggioramento della qualità della vita e i problemi psicologici correlati», osserva Maria Grazia Pisu, Presidente dell’Associazione Lombarda Malati Reumatici (ALOMAR) Onlus. «Le opportunità terapeutiche ci sono, alcune con risultati efficaci, e ciò consente anche ad ALOMAR  di dare un messaggio di speranza per costruire, assieme agli specialisti, un percorso terapeutico che possa scongiurare il peggioramento della malattia».

Perché questo avvenga, e non ci sia ritardo diagnostico, esistono alcuni campanelli d’allarme da non trascurare. «La rigidità protratta delle piccole articolazioni delle mani, anche dopo due ore dal risveglio mattutino, il gonfiore alle piccole articolazioni delle mani e dei piedi, una sensazione dolorosa quando si esercita una pressione, come una forte stretta di mano, sono possibili segni indicatori di malattia», precisa il dottor Oscar Massimiliano Epis, responsabile della Struttura di Reumatologia dell’Ospedale Niguarda di Milano. «Anche la presenza di uno solo di questi sintomi può indurre a sospettare la presenza di artrite reumatoide. Non si deve però incorrere nell’errore di rivolgersi a ortopedici, geriatri, fisioterapisti – continua Epis. La figura di riferimento è da subito il reumatologo, presso centri di riferimento (che sono purtroppo pochi e localizzati per lo più nel Nord Italia), con il quale impostare un corretto trattamento farmacologico, utilizzando FANS, cortisonici che aiutano a controllare sintomi e malattia, farmaci di base, come il methotrexate, da somministrare alla diagnosi e i farmaci biologici che danno ottimi risultati anche dopo pochi mesi dall’inizio della terapia, ma a cui possono accedere solo pazienti refrattari o non hanno risultati dalle terapie sistemiche tradizionali».

Delle novità terapeutiche si è parlato anche al Congresso Annuale Europeo di Reumatologia EULAR (European League Against Rheumatis) di Parigi dell’11-14 Giugno, ma in merito alla cura si affaccia il secondo importante problema: la scarsa partecipazione ai trattamenti. «Purtroppo per ragioni diverse – aggiunge ancora Epis – come il timore degli effetti collaterali, la diminuzione o la scomparsa del dolore o le mancate aspettative legate al farmaco – può accadere che la terapia non venga assunta con costanza e secondo le indicazioni del medico, compromettendo il buon esito del trattamento ed aumentando il rischio che il danno si accentui e degeneri».

La terapia farmacologica è il cardine, ma da sola non basta: «Serve anche una rieducazione “riabilitativa” che, studiando il contesto ambientale in cui il paziente si muove, lo aiuta a proteggere le articolazioni dall’aumento del dolore, con una correzione della gestualità, conservando energia e limitando la fatica che un cambiamento di comportamento possono implicare», precisa la dottoressa Bianca Maria Petrucci, docente di Terapia Occupazionale all’Università degli Studi di Milano.

Per ottenere buoni risultati dall’approccio multidisciplinare, si dovrebbe instaurare una sinergica relazione medico-paziente: «Si dovrebbe parlare in modo trasparente di dubbi e preoccupazioni con il proprio reumatologo, per ragionare insieme sulla scelta terapeutica e su eventuali altri interventi da prevedere per consentire una maggiore soddisfazione del paziente e un migliore controllo della malattia». Al contempo si vincerebbero anche ostacoli di ordine psicologico: «Il percorso cronico della patologia reumatica è complesso e, spesso, non viene compreso – segnala la dottoressa Silvia Ostuzzi, rappresentante ALOMAR onlus. Occorre soprattutto prevenire o spezzare l’isolamento, che è un vissuto comune per chi vive con una patologia reumatica, promuovendo attività di mutuo aiuto che stimolino chi soffre (ma anche i loro parenti e caregiver), a percorsi di consapevolezza, di condivisione, alla costruzione di una rete di relazioni che aiuti a reagire, a sentire che non si è soli».

Per raggiungere l’obiettivo ALOMAR si è impegnata a offrire borse di studio per fisioterapisti presso il Gaetano Pini di Milano, auspicando l’apertura a una diversa assistenza a livello regionale, e garantendo vicinanza al paziente con l’istituzione di 7 sedi presso alcune strutture ospedaliere e intessendo relazioni con Istituzioni e Società Scientifiche dedicate.

 

di Francesca Morelli

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